Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
«I robot hanno prodotto disuguaglianze La loro proprietà diventi comunitaria»
Freeman cita il modello dell’Alaska «Un fondo statale ridistribuisce i proventi»
«To gig or not to gig», «Robotizzare o non robotizzare». Sono i dubbi amletici dei giorni nostri, figli dei rapidi cambiamenti generati nel mondo del lavoro dall’avvento della rivoluzione digitale. Un processo che ha reso fertile il terreno per l’economia dei lavoretti, aiutato dalla crisi finanziaria, e che porterà la forza lavoro ad essere gradualmente sostituita dalle macchine. Alla gig economy e alla robotizzazione Richard Freeman, economista statunitense e docente ad Harvard che da anni approfondisce il rapporto tra innovazione e mondo del lavoro, risponde «sì, ma». La congiunzione avversativa è lì a puntualizzare che l’assetto normativo odierno non è sufficiente né a garantire la tutela effettiva dei lavoratori né ad assicurare un’equa redistribuzione della ricchezza generata dai robot. E neppure i sindacati sembrano reagire adeguatamente al cambio di logica richiesto da questa rivoluzione.
Professor Freeman, l’Italia ha gli strumenti per affrontare il cambiamento di paradigma? «Come altri Paesi, fintanto che si troverà in una situazione di crisi, cercherà di fare il possibile. L’avvento dei robot ha prodotto disuguaglianze su diversi piani: tra i proprietari di macchine e i lavoratori; tra i lavoratori i cui posti di lavoro sono stati robotizzati e lavoratori più qualificati, che possono trarre beneficio dalle macchine. Ma in futuro anche quest’ultima categoria potrebbe essere messa da parte dalla tecnologia. Serve quindi pensare a quali strumenti potrebbero attutirne l’impatto nel mondo del lavoro e a livello sociale. L’Italia può scegliere di aumentare le tasse sui ricchi per integrare il reddito dei cittadini medi; o di distribuire la proprietà dei nuovi mezzi di produzione. O anche percorrere la rotta tracciata dal Fondo permanente dell’Alaska, che è la soluzione migliore, a mio avviso». Di che cosa si tratta?
«È un fondo statale che raccoglie il rendimento dell’attività svolta dalle macchine. Tale somma, poi, viene ripartita equamente tra i cittadini. La tecnologia viene considerata come proprietà dell’intera comunità, perciò a ciascuno è assegnata una quota del sistema operativo. Dato che i robot garantiscono un guadagno maggiore dell’attività umana, confluirebbero nel Fondo importanti somme che consentirebbero così di pagare i dividendi ai lavoratori».
Come dovrebbero muoversi i sindacati italiani per far sì che i lavoratori traggano reale vantaggio dalla rivoluzione tecnologica?
«Dato che i robot lavorano più rapidamente e meglio degli umani, a costi più bassi, sono destinati ad indebolire l’efficacia dell’azione tradizionale dei sindacati, che si configura con la lotta per posti di lavoro o per l’aumento dei salari. Penso quindi che dovrebbero mobilitarsi per ottenere cambiamenti nella proprietà
L’analisi I sindacati sono in ritardo: discutono di salari e numero di addetti, ma il problema è la proprietà La gig economy finirà per ampliare i divari sociali
del capitale. E non sono sicuro che i sindacati italiani stiano ragionando nello spazio che ho appena descritto».
Parliamo, invece, della gig economy. Rischia anch’essa di accentuare le spaccature sociali?
«Sì. I lavoratori on-demand non potranno trarre benefici da questa economia trainata dalla digitalizzazione, a meno che non si introduca un nuovo corpo normativo per la loro tutela o si permetta a chi svolge i lavoretti, vedi gli autisti Uber, di partecipare agli utili o avere una quota della compagnia. Diversamente, le disuguaglianze si accentueranno».
Una sentenza italiana ha respinto la richiesta di alcuni food racers di essere considerati al pari di lavoratori subordinati della compagnia tedesca Foodora, sancendone invece lo status di lavoratori autonomi. Che cosa ne pensa?
«L’aspetto negativo del lavoro freelance è che sposta il rischio di non avere lavoro dalle aziende al lavoratore. In linea di massima, è preferibile lo status di lavoratori subordinati: garantisce più tutele e probabilmente un orario di lavoro più regolare. Credo che la migliore prospettiva sarebbe aggiungere al compenso di chi svolge i lavoretti una percentuale dei profitti delle piattaforme che offrono i servizi di consegna. O, in alternativa, dare loro gli stessi benefit che le aziende danno ai propri dipendenti, proporzionalmente alla paga».
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