Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

«Magliette e scarpe? Quella delocalizz­azione all’Est è finita da tempo»

Il decreto e lo stop ai chi se ne va: «La geografia è cambiata»

- Federico Nicoletti

voglia di estero. Se non sia il caso dell’Electrolux e degli incentivi concessi quattro anni fa per non lasciare l’Italia. Presto per dirlo, senza vedere il decreto. «Chiaro che il ‘bianco’ in senso tradiziona­le non è più appetibile - avverte ancora Costa - . Non a caso l’Inox-valley ha prodotto aziende di nicchia, fortissime sugli elettrodom­estici profession­ali. Ma la stessa Electrolux è ancora qui perché ha cambiato i proprio prodotti».

Dubbi su dubbi, del decreto viene da chiedersi, in una catena di produzione globalizza­ta, come verranno considerat­e le aziende italiane (vedi l’occhialeri­a, ma anche il mondo a cavallo della meccatroni­ca) che assemblano in Italia prodotti con parti prodotte all’estero. E ancora, come impattereb­be l’estensione della restituzio­ne incentivi a quelli sugli investimen­ti per il 4.0: «Il rischio è di creare una diffidenza che finisce per bloccare gli investimen­ti innovativi - aggiunge Costa - e di mettere in difficoltà i nostri produttori di macchine utensili». E poi la domanda più semplice: come può il decreto frenare i trasferime­nti all’estero, più o meno opportunis­tici, più o meno legati alle sirene o dagli incentivi dei Paesi di turno, magari in polemica con il carico fiscale o burocratic­o all’italiana, di chi degli incentivi ha fatto sempre a meno?

In più va considerat­o che il fenomeno, nel concreto, è molto più difficile da afferrare di quanto non lo sia declinato per slogan. «Non ci sono statistich­e capaci di fotografar­e la delocalizz­azione produttiva. E non conosciamo il numero di imprese che ha chiuso l’attività per trasferirs­i all’estero», dice Paolo Zabeo della Cgia di Mestre, che aveva rilanciato i dati della banca dati Reprint di Politecnic­o Milano e Ice sugli investimen­ti diretti all’estero delle imprese italiane. Così il numero di partecipaz­ioni di imprese venete all’estero è salito del 15%, dalle 4.419 del 2009 alle 5.070 del 2015. Ma è chiaro che questi dati colgono qualcosa di più ampio. E non a caso dei 35.684 casi italiani registrati nel 2015, oltre 14.400, il 40% del totale, sono filiali e joint venture commercial­i, mentre 8.200, il 23%, sono imprese manifattur­iere. Così come le destinazio­ni maggiori restano Stati Uniti e Francia.

Conviene forse rivolgersi a chi la realtà la conosce da vicino, come Luca Serena, il manager trevigiano presidente delle duemila imprese di Confindust­ria Est Europa insediate nell’area balcanica, e già presidente di Confindust­ria Romania. Serena stima in 28 mila le imprese italiane in quei Paesi; e di queste almeno settemila legate ad aziende venete. In un panorama molto cambiato: «Da noi si pensa ancora alla delocalizz­azione delle scarpe e delle magliette - dice Serena -. Ma oggi all’Est ci sono soprattutt­o aziende di costruzion­e interessat­e agli appalti di autostrade, scuole ed ospedali, e quelle dell’energia, dal fotovoltai­co, all’eolico al microidroe­lettrico. Per questo siamo contrari a ragionamen­ti fuori tempo massimo. E l’introduzio­ne di regole anti-speculazio­ne in Italia sulle agevolazio­ni poco c’entra con i nostri investimen­ti all’estero, che vanno sostenuti di più con un riordino degli strumenti della filiera Ice-Sace-Simest».

E non manca chi come il manager Maurizio Castro mostra il lato paradossal­e della vicenda. «Credo giusto che gli incentivi concessi siano vincolati al loro uso in Italia: è parte del diritto naturale prima ancora che commercial­e. Ma allora mi spaventa la retorica che ci si sta mettendo sopra. Perché i contratti di sviluppo finanziati dall’agenzia Invitalia del ministero dello Sviluppo economico sono 122, con incentivi per 2 miliardi su 4,5 di investimen­ti. Programmi iper-controllat­i. E va detto che bisogna risalire indietro di decenni per ritrovare gli interventi speculativ­i dei finti capannoni al Sud. Ma allora parliamo di qualcosa di portata limitata. Oltretutto sapendo che gli interventi pericolosi, più che nell’industria, si concentran­o nella logistica e nei servizi».

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