Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
VENEZIA TRA ACQUA E FUOCO
Ogni volta che c’è una scintilla, un poco di fumo, Venezia si spaventa. Specie se, come ieri mattina, capita alla Fenice, già bruciata nel 1836 e nel 1996. Le fiamme nel locale tecnico, questa volta, sono state prontamente spente, anche a conferma della bontà dei lavori e dei sistemi del teatro. Son spesso bruciati i teatri, fatti di legno e lampade. É spesso bruciata Venezia. Le grandi fiamme spaventano dovunque, ma soprattutto qui, in questa città mai romana, mai larga, nata del Medioevo, rimasta con le strade strette, i tetti attaccati. Nel tempo, gli incendi hanno bruciato tanto, quasi tutto: la Basilica di San Marco, nel 976 e nel 1231, il Palazzo Ducale nel 1483, 1573 e 1577, il Fondaco dei Tedeschi e la zona di Rialto nel 1505. Sono bruciati i dipinti di Vivarini, Carpaccio, Tiziano, Bellini, Giorgione. Sono bruciati la drapperia, il mercato, i granai, e, a centinaia, le piccole case della povera gente e i palazzi dei signori. Il fuoco, un tempo, prima del progresso, era ingestibile, enorme, portava decine di morti, quando andava bene. Bastava un caminetto, una più moderna lampada, e tutto avvampava. Venezia, spesso, pare una città fatta dall’uomo, ma invece é nata e condizionata dalla natura. L’ha fatta l’acqua, la laguna. L’ha fatta e disfatta il fuoco. Il fuoco è sempre stato regolato, studiato, combattuto. Per scacciarlo, per diminuire il numero degli incendi, nel 1292 la Serenissima stabilì che le vetrerie finissero a Murano, un’isola di orti sufficientemente lontana dal centro perché nessuna fiamma potesse minacciare tutta Venezia.
Ma non tutte le attività si potevano allontanare, non tutti i rischi. Perché Venezia era, ed è ancora in parte, legno, capriate, camini antichi. Perché Venezia era, e non è più, industriale, febbrile. Nel Medioevo, le fonderie dell’Arsenale erano divise in cinque edifici per evitare la propagazione del fuoco. Ancora nell’Ottocento, c’erano forni e stabilimenti, alla Neville si lavorava il ferro, alla Junghans si producevano le bombe. E il fuoco c’era, era nelle case di tutti, nella vita di tutti. E, nonostante ogni precauzione ed evoluzione, nonostante i nuovi sistemi di sicurezza, c’é ancora. Il 29 gennaio 1996 avevo dodici anni, e non mi ero accorto di niente. Mio padre mi svegliò con la stessa faccia di quando era morta mia nonna, io mi spaventai e gli chiesi cos’era successo. Mi disse che era bruciata la Fenice, che avevo dormito di sasso, ma sarebbe stato pronto a svegliarmi se fosse stato necessario. Mi raccontò che c’era stata paura, perché c’era poca acqua per spegnere (la nostra acqua salsa, che spegne ma rovina), e perché le fiamme ballavano altissime, e parevano pronte a saltare nelle altre case, e poi magari oltre al Canal Grande. «Poteva bruciare tutta Venezia?» chiesi a mio padre. «No» mi rispose, ma più come fosse una profezia che non una certezza. «Chi é stato?» Domandai. «Spero che li trovino questi assassini». «Avresti dovuto svegliarmi». «E perché?». «Potevo andare, aiutare i pompieri, magari c’era bisogno». Sorrise. Alla scuola media Dante Alighieri, vicino all’Accademia per tutta la mattina non fui concentrato, non lo era nessuno. Finite le lezioni, corsi verso la Fenice. Non ci arrivai. C’erano transenne e pompieri e un forte odore di fumo, e c’erano tanti veneziani e un senso di sconfitta, di smarrimento. La tragedia era evitata, sì, ma la torcia della Fenice l’aveva svuotata. Com’era triste, la mia città, senza il suo teatro. Quante volte, le nostre città paiono sul punto di finire. E Venezia sembra la più fragile di tutte. Eppure, poi, resiste. All’epoca, avrei voluto che venisse fatta tutta diversa, la Fenice, adesso non ne sono più sicuro. Perché adesso è lì, come sognava quel ragazzino che andava alla Dante Alighieri, come sono lì tutte le cose che sono bruciate e che i veneziani hanno rifatto.