Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
Morta per la trasfusione la verità 43 anni dopo
La Cassazione: «nesso di causalità» tra gli interventi subiti dal ‘75 e l’epatite C che uccise una vicentina
VICENZA Quarantatré anni dopo la trasfusione, i giudici hanno finalmente riconosciuto che quel sangue era infetto. Una malattia che, a una paziente vicentina, è costata la vita.
La vicenda riguarda una donna di Lonigo morta il 17 giugno del 1983 per «epatite da Hcv con degenerazione neoplastica». Sosteneva di aver contratto il virus a causa delle trasfusioni alle quali era stata sottoposta in occasione di due ricoveri: il primo, nel luglio del 1975 all’ospedale di Legnago (Verona); il secondo nell’estate del 1983 a Lonigo. In tutto, le furono date sei unità di sangue, tre delle quali «prive di tracciabilità», in quanto - sosteneva - provenienti da donatori «non sottoposti ai controlli previsti dalla normativa dell’epoca».
La donna si era vista però respingere una prima richiesta di indennizzo dalla Commissione medica di Padova, che sosteneva che «l’infezione da Hcv non fosse in rapporto di causalità con le trasfusioni». Insomma, per i medici aveva contratto l’epatite C altrove.
La battaglia legale, dopo la sua morte, era stata portata avanti dal marito e dai figli con un ricorso al tribunale di Vicenza. Nel 2005 il giudice aveva ribaltato il parere della Commissione, dando per accertato che il contagio fosse avvenuto proprio a causa delle sacche di sangue infetto, la stessa conclusione alla quale giunse anche il tribunale di Venezia, al quale i familiari si rivolsero in seguito, per ottenere un risarcimento superiore. «Avevano così ottenuto oltre 700mila euro di indennizzo per i danni subiti», ricorda l’avvocato Antonino Saverio Perozzi, che in questi anni ha portato avanti la causa per conto del marito e dei figli della vittima.
Il nuovo colpo di scena era arrivato con la sentenza della Corte d’appello, che smentiva la precedente: alla famiglia non spettava alcun risarcimento in quanto non era «sufficientemente provato il nesso tra le trasfusioni e la contrazione del virus».
A questo punto, morto anche il marito della donna, è toccato ai figli della coppia il compito di trascinare il caso fino alla Cassazione. Nei giorni scorsi, la sentenza che - quarantatré anni dopo il primo intervento chirurgico ha annullato la decisione della Corte d’appello partendo da un presupposto: deve restare valido quanto accertato dal tribunale di Vicenza «circa la sussistenza del nesso causale tra gli interventi trasfusionali e la patologia». In pratica, per la Suprema Corte la vicentina è morta a causa della degenerazione dovuta all’epatite C contratta con il sangue infetto che le era stato trasfuso nel corso delle operazioni alle quali era stata sottoposta.
Il calvario giudiziario della famiglia non si è però ancora concluso. Annullando la sentenza precedente, il caso ora tornerà nuovamente alla Corte d’appello che stavolta dovrà esprimersi tenendo conto di quanto stabilito dalla Cassazione. L’esito, però, appare scontato. «Chiederemo di confermare il risarcimento che ci era stato riconosciuto dal tribunale di primo grado - conclude l’avvocato Perozzi - vale a dire poco più di 700mila euro ai quali occorrerà sommare gli interessi. La cifra finale dovrebbe aggirarsi intorno al milione».