Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
DECRETO BOOMERANG SUL LAVORO
Dal Veneto all’EmiliaRomagna, dal Trentino-Alto Adige/Südtirol a tutto il Nord produttivo cresce l’allarme per le nefaste conseguenze del cosiddetto decreto Dignità. Quando la demagogia va al potere, più delle fallaci speranze preoccupano i danni concreti. Assolavoro rileva come siano 53.000 le persone che dal prossimo primo gennaio non potranno riavere, attraverso le agenzie, un contratto a tempo determinato, in quanto sarà stato raggiunto il limite dei 24 mesi fissato dalla nuova normativa. Ma non ci sono solo loro (quattromila in Veneto, alcune migliaia in Emilia, circa mille in Trentino-Alto Adige), poiché la stretta riguarda molti altri rapporti a termine. Anziché liberalizzare il mercato del lavoro dando piena tutela e assistenza a chi perde il posto, si insiste sulla strada dei vincoli che finora non ha portato alcun beneficio. Un’azienda può decidere di assumere del personale perché incentivata a farlo, certo non per costrizione: difronte a un obbligo, o rinuncia o trova un’alternativa. Come spiegano i consulenti del settore, che ovviamente non contemplano le soluzioni illegali, si va dall’aumento degli straordinari alle esternalizzazioni (cioè affidando ad altri una serie di compiti che prima venivano svolti in casa) o ai part time verticali a tempo indeterminato (ad esempio per 9 mesi, ma così si appesantisce comunque la pianta organica e il dipendente nei tre mesi scoperti non gode della disoccupazione).
Chi esalta le gabbie rigide, evidentemente non conosce come ragioni un’azienda sana. Il manager capace sa che la forza dell’impresa risiede per buona parte nel valore del proprio personale: nessuno ha interesse a perdere un bravo collaboratore (sul quale in genere ha investito in termini di formazione), tuttavia in un contesto economico ogni giorno più incerto non sempre può legarlo a sé in via definitiva. È però tra i suoi «precari» che pescherà appena possibile, ad esempio per sostituire chi va in pensione. Il governo sostiene che due anni sono un tempo sufficiente per capire se un lavoratore sia necessario, ma non è così, anche perché in realtà per non correre i rischi e non soggiacere a procedure complicate, molti datori rispettano il primo limite stabilito dalla legge (un anno) e non si imbarcano nell’avventura della richiesta di proroga. Il risultato, dunque, molto probabilmente sarà di allargare la fascia di occupati di breve durata. L’illusione di poter risolvere le croniche storture del sistema italiano – non certo create in pochi mesi dall’attuale governo – con un colpo di bacchetta magica, ossia con un decreto dal nome affascinante, sarà perciò pagata soprattutto da chi dovrebbe essere aiutato. Certo, ci rimetteranno anche le aziende, costrette a limitare la propria attività o, appunto, ad adattarsi a qualche rimedio per non accettare rigidità potenzialmente foriere di problemi di tenuta. Il decreto, in tutta evidenza, rivela una concezione negativa dell’impresa, ritenuta intrinsecamente vocata allo sfruttamento dei dipendenti, ignorando gli infiniti esempi di imprenditori che hanno condiviso con la propria squadra (talvolta addirittura con il territorio) i risultati ottenuti. Se invece si partisse dall’assunto di un tessuto sano con poche o tante mele marce, si cercherebbe di colpire queste ultime e non l’intero universo. Insomma, come sempre le scorciatoie non portano mai lontano: per rilanciare l’occupazione, occorre favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, incentivare le assunzioni, tutelare economicamente chi è disoccupato e aiutarlo a trovare un impiego. E magari ridurre i costi impropri che le aziende devono sopportare (ad esempio quelli indotti dagli eccessi di burocrazia o dalle inadeguatezze delle infrastrutture italiane) in modo di poter destinare maggiori risorse alle buste paga.