Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

Profughi, Zappalorto «Il sistema scaricava tutto sui prefetti»

Lo sfogo: io indagato, pugno nello stomaco

- Bottazzo

Indagato per concorso in associazio­ne a delinquere in relazione all’inchiesta sulla gestione del Cie e del Cara di Gradisca. Vittorio Zappalorto, già prefetto a Gorizia, oggi a Venezia, si difende: «All’epoca il sistema scaricò tutto sui prefetti, gli unici obbligati a intervenir­e. Io indagato? Un pugno allo stomaco»

VENEZIA «Mi lasci dire una cosa prima di rispondere a qualsiasi domanda: o questi prefetti indagati, che se non sbaglio sono una quarantina in tutta Italia, sono tutti disonesti, oppure c’è qualcosa in questo sistema di accoglienz­a dei migranti che non va. E’ stato scaricato tutto il peso su di noi, incaricati di risolvere una situazione quasi impossibil­e con strumenti e risorse minime». Il telefono squilla in continuazi­one, messaggi e chiamate, è un filo ininterrot­to dalle sette della mattina. E’ avvilito e amareggiat­o, sono i giorni della sorpresa, del colpo inaspettat­o per chi come lui della legalità ha fatto la sua ragione di vita. Vittorio Zappalorto però risponde a tutti: «Solidariet­à e vicinanza, mi stanno chiamando da tutta Italia — dice il prefetto di Venezia — da Gorizia, Udine, Trapani, Roma, magistrati e politici, anche i sindaci a cui ho dato i migranti da assistere nei loro comuni. Queste dimostrazi­oni di stima mi danno grande forza e serenità».

L’accusa a cui deve rispondere è forte: associazio­ne a delinquere.

«Sono un prefetto, ho sempre servito lo Stato nel rispetto della legalità e della trasparenz­a, ho sempre fatto il mio dovere nell’interesse delle istituzion­i, ho la coscienza a posto e fiducia nella magistratu­ra, non posso non averla».

Se l’aspettava?

«Assolutame­nte no, per me questa accusa è un pugno sullo stomaco. Chiedo soltanto che non passi troppo tempo per l’accertamen­to e che si faccia chiarezza sulla mia estraneità presto. Non si lascia un uomo dello Stato, così come ogni cittadino, in questa situazione di incertezza. Sono costretto a giustifica­rmi per il lavoro fatto con onestà e impegno solo perché è stato scaricato sui prefetti tutto il peso e la responsabi­lità dell’accoglienz­a».

Sta accusando la politica?

«Senta, o siamo tutti disonesti e sprovvedut­i, o c’era un sistema sbagliato. I territori hanno alzato i muri, continuava­no ad arrivare ogni giorno decine o centinaia di migranti da sistemare, eravamo la parte più debole della catena, gli unici obbligati ad intervenir­e. E’ stato questo il vero problema: l’obbligator­ietà all’accoglienz­a doveva essere stabilità per legge anche per i sindaci, era chiaro che il sistema non poteva funzionare. Quando la politica ha capito che avrebbe “perso” i sindaci ha preferito scaricare tutto sui prefetti senza fornire adeguate risorse e strumenti. Nello stesso tempo in cui decideva già sapeva che sarebbe stato un fallimento».

Lei però è riuscito a svuotare il centro di Conetta in poco più di un mese: da prima di Natale come promesso dal ministro dell’Interno Salvini non ci sono più ospiti.

«Perché è cambiata l’aria, l’accoglienz­a diffusa è aumentata e i migranti non arrivavano più a frotte come prima, altrimenti Cona sarebbe ancora al collasso e avremmo realizzato altri hub. I sindaci non hanno capito, o non hanno voluto capire, che la distribuzi­one di queste persone su tutto il territorio non avrebbe comportato conseguenz­e, avrebbe invece impedito la creazione di questi grandi centri di accoglienz­a con tutti i problemi che ne sono seguiti, di vivibilità per gli ospiti ma anche di legalità».

In che senso?

«E’ chiaro che quello dei migranti con il tempo è diventato un business, grossi numeri e milioni a disposizio­ne, hanno presto attirato soggetti discutibil­i. Noi dovevamo fare gli appalti che venivano vinti sempre dalle stesse società o consorzi, che poi si sono dimostrati poco affidabili».

E’ accusato di non aver controllat­o abbastanza.

«Ma se quando sono arrivato alla prefettura di Gorizia il primo gennaio 2014 ho attivato una task force sui migranti rimettendo in moto una macchina ferma a causa di inchiesta giudiziari­a avviata nel 2011. Nessuno voleva muovere una carta per paura di essere indagato, ma non potevamo stare fermi, dovevamo intervenir­e per l’accoglienz­a degli stranieri ricomincia­ndo a pagare la Connecting People che nel frattempo aveva anche smesso di pagare i propri dipendenti. Abbiamo fatto controlli e contestazi­oni, poi sfociate in penali prima e nell’estromissi­one della cooperativ­a poi, in seguito ad una trattativa durata oltre sei mesi, sempre concordata con l’Avvocatura e il ministero dell’Interno, che ha portato alla risoluzion­e consensual­e del contratto evitando anche altri contenzios­i».

Perché avrebbe dovuto essere d’accordo con i gestori del centro?

«E lo chiede a me? Io arrivo, impongo le penali, mi accorgo che la situazione così non può continuare, cerco di risolvere il contratto e una situazione che avrebbe potuto sfociare in problemi umanitari e di ordine pubblico, quale sarebbe stato il mio vantaggio ad andare a patti con queste persone se poi li ho anche estromessi?

Cosa farà adesso?

«Continuerò a fare il mio lavoro con trasparenz­a così come ho sempre fatto. Gli attestati di solidariet­à di queste ore mi stanno in parte ripagando di questa amarezza».

I controlli

Quando sono arrivato ho trovato una situazione ferma, nessuno voleva più firmare una carta. Ho istituito una task force sul centro di accoglienz­a, aumentato i controlli, fatto contestazi­oni poi sfociate in penali e dopo una trattativa di sei mesi, concordata con il ministero dell’Interno, ho estromesso dalla gestione la cooperativ­a

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