Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
La Grande Crisi e la risalita, il Veneto è arrivato a un bivio
Tre parole d’ordine: innovazione, sostenibilità e capitale umano Carraro (Fondazione Nord Est): Lento declino o salto di qualità
Ese fossimo (davvero) migliori di prima? Se alla vigilia del 2020, dopo i primi vent’anni del Terzo Millennio e la lunga traversata nella più dura recessione dal secondo dopoguerra, il tessuto economico-produttivo del Veneto si ritrovasse più solido e competitivo che a inizio secolo?
Per carità, meglio non scomodare Joseph Schumpeter, il teorico della «distruzione creatrice», e gli altri economisti che inneggiano al potenziale innovativo delle crisi. Ma un po’ per forza e un po’ per necessità, il Nordest vanto e gloria della piccola impresa ha voltato pagina.
E tutti, ma proprio tutti, hanno capito che l’epoca del fai-da-te, dei viaggi alle fiere estere con la valigetta in mano, della corsa a produrre tanto e a basso costo (vedi l’epopea di Timisoara, in Romania, ottava provincia del Veneto) è finita.
Per sempre.
In realtà, sono state lacrime e sangue. Gli anni Duemila si aprivano all’insegna dell’entrata in vigore dell’euro. Indimenticabile quel San Silvestro tra 2001 e 2002, la notte della moneta unica. Peccato che gli italiani si siano risvegliati con l’inflazione alle stelle, colpa dei (tanti) furbacchioni che immediatamente avevano aggiustato i prezzi: un euro uguale mille lire, anziché 1936,27 come da valutazione ufficiale. L’euro, comunque, garantisce stabilità nei cambi e nel costo del denaro. Le imprese nordestine, già forti della loro vocazione all’export, ne approfittano per schiacciare ulteriormente l’acceleratore dell’internazionalizzazione. Ma è l’economia nel suo complesso a girare per il verso giusto: nel 2007 arrivano i record nella produzione industriale e nell’occupazione.
Qualche mese dopo, la doccia fredda: negli Stati Uniti scoppia la bolla dei famigerati mutui subprime. Una febbre terribile, che contagia mezzo mondo. La discesa va avanti fino al 2014. I numeri sono impietosi. Solo per il Veneto, 9 punti di Pil persi, 30 mila imprese costrette alla chiusura, 100 mila posti di lavoro dipendente bruciati. E per capire la drammaticità della situazione, basta pensare alla catena di suicidi tra gli imprenditori, gente che preferisce farla finita piuttosto che dichiarare
fallimento. Giulio Pedrollo, ex leader degli industriali veronesi e oggi vicepresidente nazionale di Confindustria, porta un’immagine illuminante: «La mia azienda dà proprio sull’autostrada A4. Mi affacciavo alla finestra dell’ufficio e a qualsiasi ora la trovavo desolatamente vuota. Mi prendeva un groppo allo stomaco: “Dove sono finiti i camion?”. Ora sorrido quando rivedo quei bellissimi ingorghi di Tir».
Venti anni vissuti pericolosamente
La risalita è stata lenta e piena di ostacoli. Ma tant’è. Guardando i dati del Barometro dell’economia regionale di Unioncamere del Veneto, si può affermare che ce l’abbiamo fatta. Bando alla nostalgia del boom dei capannoni, o peggio della vecchia liretta. Alla vigilia degli anni Venti, che qualcuno indica come decisivi addirittura per le sorti del pianeta, i principali indicatori macroeconomici risultano decisamente migliori rispetto al periodo ante-crisi. La ricchezza perduta è stata recuperata, il tasso di occupazione è salito al 67,3%, quello di disoccupazione è sceso al 5,1%. Nell’ultimo decennio sono cresciute le presenze turistiche (più 13,8%), che erano già al top in Italia. Ma soprattutto è esploso l’export: più 38,8%, con un saldo commerciale raddoppiato. «È stata la nostra àncora di salvezza» sottolinea Pedrollo. «Gli altri Paesi, Germania in testa, sono usciti dalla tempesta prima di noi. Averne
saputo approfittare, agganciando mercati consolidati ed emergenti, entrando nelle filiere globali, è un merito enorme. E attenzione: spesso i piccoli si sono rivelati più bravi dei grandi».
Purtroppo non finisce qui. Il Nordest stava appena rialzando la testa quando, nell’autunno 2015, scoppia il bubbone della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca. Inutile ripercorrere lo stillicidio dei colpi di scena, dei tentativi di salvataggio, delle speranze e delle disillusione dei risparmiatori gabbati. La giustizia farà il suo corso e accerterà le responsabilità. Fatto sta che le famiglie venete hanno visto andare in fumo 4 miliardi, un altro miliardo è stato lasciato sul campo dalle imprese e a conti fatti il Pil regionale ha registrato una contrazione dello 0,13%, pari a poco meno di 200 milioni. Ancora una volta, però, non tutto il male viene per nuocere. Perché il credito è una cosa seria, che si deve dare alle imprese serie. E anche se prestiti e affidamenti appaiono in contrazione, nessuno rimpiange quelle banche del territorio che con la degenerazione del capitalismo di relazione erano diventate un fardello.
Il bivio per il futuro
Tutto bene, dunque? L’anno (anzi, il decennio) che sta arrivando segnerà le magnifiche sorti e progressive del Nordest? «Magari» allarga le braccia Christian Ferrari, segretario generale della Cgil Veneto. «Specialmente nel campo del lavoro rimangono molte ombre. Il monte ore lavorato nel 2019 è di gran lunga inferiore a quello del 2007. Il part-time involontario mostra un’impennata. Per non parlare del precariato: difficile mettere una pietra sopra ai 17 milioni di voucher venduti nel 2016. Il mercato interno è completamente fermo e, piaccia o no, non si vive di solo export, altrimenti alla prima frenata dell’auto tedesca rischiamo di farci male. La verità è che le nostre imprese, al di là delle dichiarazioni nei convegni, fanno fatica a capire che la strada per competere passa dalla qualità, dall’alto valore aggiunto, dall’innovazione. Da un nuovo modello imperniato sulla sostenibilità. E, su tutto, dalla valorizzazione del capitale umano».
Eccole le tre parole d’ordine degli anni Venti: innovazione, sostenibilità, capitale umano. Certo, il contesto non aiuta. Il Nordest continua a subire un pesante gap infrastrutturale: la Tav è l’emblema del perenne tira e molla sulle opere pubbliche. La pressione fiscale sopra il 42% e la burocrazia onnipresente costituiscono un evidente freno allo sviluppo. E non apriamo nemmeno il capitolo sull’instabilità politica, che ci penalizza a livello internazionale e nel contempo è un fattore che incide sulla competitività del Paese. Come si fa a varare uno straccio di politica industriale se allo Sviluppo economico, dal 2000 a oggi, si sono alternati undici ministri? Il piano Industria 4.0, trasversalmente apprezzato, in seguito azzerato e quindi reintrodotto, è la prova provata di una navigazione a vista. «Tutto vero, tutto giusto» sostiene Carlo Carraro, ex rettore dell’università Ca’ Foscari di Venezia, attuale direttore scientifico della Fondazione Nordest. «Ma al di là delle responsabilità della politica, resta il nodo di fondo. Il Veneto è a un bivio: rassegnarsi a un lento declino, magari provando a gestire e a minimizzare i danni, oppure giocare al rialzo, puntare a un salto di qualità sulla scena competitiva globale. In questo caso la via è obbligata: occorre rilanciare gli investimenti, pubblici e privati».
Hi-tech, sostenibilità, giovani
Si torna alla sinfonia del nuovo mondo. E alle tre parole d’ordine su cui costruire il futuro: innovazione (che passa necessariamente dall’alta tecnologia), sostenibilità (ambientale e sociale), risorse umane (esaltazione delle competenze). Gli esempi, , o se si preferisce le best practice alle quali ispirarsi non mancano. Sul versante della rivoluzione digitale, la buona notizia è la partenza del Competence center del Nordest, che riunisce tutti gli atenei del Triveneto. Forse è la volta buona per oliare la famosa cinghia di trasmissione tra sistema delle imprese e mondo dell’università.
Chi poi teme che l’hi-tech finisca sempre per rubare posti di lavoro può fare un salto alla Electrolux. Nel 2014 il colosso svedese minacciava di abbandonare l’Italia per trasferire la produzione nell’Est europeo. Ora mette sul piatto 130 milioni in automazione nello stabilimento di Susegana. Dove robot e tute blu stanno imparando a convivere.
Quanto al tema della sostenibilità, il Rapporto GreenItaly curato da Fondazione Symbola e Unioncamere colloca il Veneto in seconda posizione dietro alla Lombardia per investimenti verdi: 42,9 miliardi dal 2015 al 2019, con 42.963 imprese che hanno scommesso su tecnologie e prodotti green e 45.990 greenjobs stipulati solo nell’ultimo anno. Numeri destinati a moltiplicarsi, perché sostenibilità fa rima con competitività.
Riguardo al capitale umano, infine, a tracciare il solco è Luxottica, che ha appena assunto a tempo indeterminato 1.151 precari. L’ottantaquattrenne Leonardo Del Vecchio ha capito perfettamente che per fermare la fuga della meglio gioventù non c’è che una ricetta: offrire loro un lavoro e uno stipendio (realmente) dignitosi.