Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
UN PONTE CONTRO I RANCORI
L’avvio della capitale europea del volontariato Padova 2020 conferma l’importanza di queste candidature. Era molto tempo che una città veneta non riceveva un riconoscimento di questo tipo. Non conferisce solo un prestigio di facciata, ma è un’opportunità per alimentare la vitalità delle esperienze, fare squadra, tessere relazioni, conoscere e far conoscere buone pratiche e metterle in rete anche con un respiro internazionale. Ci sta anche un racconto compiuto con la solennità di una liturgia, di vocazioni solidali, di condivisione con gli altri e di inclusione, ripercorso nei numeri di una presenza consistente e capillare del volontariato padovano e veneto. Padova ha l’opportunità di diventare un grande laboratorio per il volontariato nella comunità che viene. Questa assomiglia sempre meno a quella che abbiamo alle spalle. La crescita economica fino a dieci anni fa ha conferito una centralità al binomio famiglia-impresa e il lavoro è stato per quasi tutti il viatico di una inclusione comunitaria molto forte. La crescita aveva in sé una forte tempratura sociale che si prolungava, in contesti marginali e circoscritti, con le aree di volontariato sociale e poi cooperativo a completare il capitolo mancante della coesione. Oggi le fragilità sono aumentate e sono differenziate. Da problema circoscritto si caratterizzano per una vulnerabilità diffusa. Le nuove fragilità possono colpire i soggetti centrali della demografia e dell’economia.
Pensiamo alle dipendenze vecchie (alcool, droghe) e nuove (ludopatie) con numeri pazzeschi. Sappiamo che le mense della Caritas e i banchi alimentari sono frequentati sempre più da italiani, di provenienza anche di ceto medio. Fragilità che derivano dalla tenaglia del cedimento della comunità tradizionale e dei tagli alla spesa pubblica per welfare.
Alcuni pezzi, fortunatamente ancora minoritari, di quella che ritenevamo la società centrale sono attraversati da processi striscianti di impoverimento e di precarizzazione. Si vive una condizione di perifericità rispetto a un centro che non si capisce neppure dove si trovi. In molti casi, questi processi si traducono in storie di impressionante sofferenza personale. Con esiti a volte tragici. Ebbene, è proprio per questo mutato segno della società dell’integrazione che dobbiamo scavare nella sorta di deserto che avanza. Il nostro welfare è vecchio. Non affronta le nuove fragilità con strumenti adeguati. Ogni strumento per essere adeguato deve presupporre una relazione tra persone, «il valore dello stare accanto» ha detto il Presidente Mattarella ieri in Fiera a Padova. Oggi c’è molto più bisogno di volontariato perché si sono indeboliti tutti i riferimenti. Quando pezzi di società si percepiscono in impoverimento, anche minimale, e si saldano a vicende personali di difficoltà che non trovano nessun sostegno, partono macchine di produzione di un sentimento che è il rancore. Durante una ricerca sulla povertà ho intervistato un veneto, un «nostrano», rimasto senza lavoro e senza casa. Ha detto una cosa, probabilmente molto urticante per chi ragiona con schemi buonisti: «Avrei bisogno di un alloggio del Comune ma li danno solo agli immigrati. Il mio non è razzismo. Il mio è rancore». Ebbene, dietro il rancore esiste una sofferenza non risolta, un isolamento affettivo, un invincibile senso di sfiducia. Diffida del buonismo perché ritiene che la solidarietà sia solo per i «soliti noti». L’Anno Europeo del volontariato, questo straordinario laboratorio padovano non rimarrà una bella cittadella. Ci vogliono ponti proprio verso le piccole ma diffusissime comunità del rancore.