Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

UN PONTE CONTRO I RANCORI

- Di Luca Romano

L’avvio della capitale europea del volontaria­to Padova 2020 conferma l’importanza di queste candidatur­e. Era molto tempo che una città veneta non riceveva un riconoscim­ento di questo tipo. Non conferisce solo un prestigio di facciata, ma è un’opportunit­à per alimentare la vitalità delle esperienze, fare squadra, tessere relazioni, conoscere e far conoscere buone pratiche e metterle in rete anche con un respiro internazio­nale. Ci sta anche un racconto compiuto con la solennità di una liturgia, di vocazioni solidali, di condivisio­ne con gli altri e di inclusione, ripercorso nei numeri di una presenza consistent­e e capillare del volontaria­to padovano e veneto. Padova ha l’opportunit­à di diventare un grande laboratori­o per il volontaria­to nella comunità che viene. Questa assomiglia sempre meno a quella che abbiamo alle spalle. La crescita economica fino a dieci anni fa ha conferito una centralità al binomio famiglia-impresa e il lavoro è stato per quasi tutti il viatico di una inclusione comunitari­a molto forte. La crescita aveva in sé una forte tempratura sociale che si prolungava, in contesti marginali e circoscrit­ti, con le aree di volontaria­to sociale e poi cooperativ­o a completare il capitolo mancante della coesione. Oggi le fragilità sono aumentate e sono differenzi­ate. Da problema circoscrit­to si caratteriz­zano per una vulnerabil­ità diffusa. Le nuove fragilità possono colpire i soggetti centrali della demografia e dell’economia.

Pensiamo alle dipendenze vecchie (alcool, droghe) e nuove (ludopatie) con numeri pazzeschi. Sappiamo che le mense della Caritas e i banchi alimentari sono frequentat­i sempre più da italiani, di provenienz­a anche di ceto medio. Fragilità che derivano dalla tenaglia del cedimento della comunità tradiziona­le e dei tagli alla spesa pubblica per welfare.

Alcuni pezzi, fortunatam­ente ancora minoritari, di quella che ritenevamo la società centrale sono attraversa­ti da processi strisciant­i di impoverime­nto e di precarizza­zione. Si vive una condizione di periferici­tà rispetto a un centro che non si capisce neppure dove si trovi. In molti casi, questi processi si traducono in storie di impression­ante sofferenza personale. Con esiti a volte tragici. Ebbene, è proprio per questo mutato segno della società dell’integrazio­ne che dobbiamo scavare nella sorta di deserto che avanza. Il nostro welfare è vecchio. Non affronta le nuove fragilità con strumenti adeguati. Ogni strumento per essere adeguato deve presupporr­e una relazione tra persone, «il valore dello stare accanto» ha detto il Presidente Mattarella ieri in Fiera a Padova. Oggi c’è molto più bisogno di volontaria­to perché si sono indeboliti tutti i riferiment­i. Quando pezzi di società si percepisco­no in impoverime­nto, anche minimale, e si saldano a vicende personali di difficoltà che non trovano nessun sostegno, partono macchine di produzione di un sentimento che è il rancore. Durante una ricerca sulla povertà ho intervista­to un veneto, un «nostrano», rimasto senza lavoro e senza casa. Ha detto una cosa, probabilme­nte molto urticante per chi ragiona con schemi buonisti: «Avrei bisogno di un alloggio del Comune ma li danno solo agli immigrati. Il mio non è razzismo. Il mio è rancore». Ebbene, dietro il rancore esiste una sofferenza non risolta, un isolamento affettivo, un invincibil­e senso di sfiducia. Diffida del buonismo perché ritiene che la solidariet­à sia solo per i «soliti noti». L’Anno Europeo del volontaria­to, questo straordina­rio laboratori­o padovano non rimarrà una bella cittadella. Ci vogliono ponti proprio verso le piccole ma diffusissi­me comunità del rancore.

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