Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
PROFEZIE E REALTÀ
Se c’è un dato acquisito delle scienze sociali, è la «profezia che si autoadempie». Se si diffondono voci del rischio di insolvenza di una banca, la gente corre a ritirare il proprio denaro e la banca fallisce. È il teorema di Thomas: «se gli uomini definiscono certe situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze».
Questo fenomeno andrebbe sempre tenuto presente nella gestione delle emergenze.
Quando si adottano certe misure, anche ragionevoli, a titolo precauzionale, occorre sempre chiedersi come verranno accolte da chi (buona parte dell’opinione pubblica e dei media) ha meno consuetudine con i dettagli informativi, le precisazioni, le stime del rischio.
La decisione di chiudere scuole, musei, biblioteche e luoghi di ritrovo può essere ragionevole dal punto di vista di chi ha responsabilità istituzionali ma è senz’altro eccezionale e inedita per buona parte della popolazione. Come tale può essere percepita non come un gesto cautelativo, ma come il primo atto di una potenziale escalation verso provvedimenti ancora più restrittivi, scenari ignoti e perfino apocalittici.
Chi legge le notizie e vede le immagini degli assalti ai supermercati è portato a fare altrettanto, in una spirale imitativa perversa che moltiplica ansie e preoccupazioni, finché gli scaffali dei supermercati non si svuotano davvero.
In questo quadro risulta poco efficace l’invito, ripetuto quotidianamente da più parti, «a non creare allarmismi». Come si può chiedere ai mezzi di informazione di non dare conto delle file per fare scorte di cibo o delle mascherine e disinfettanti esauriti?
Si tratta indubbiamente di notizie. Poi certo, si possono criticare titoli sensazionalistici o approfondimenti talvolta voyeuristici sui luoghi del contagio. Ma quasi tutte le testate riportano quotidianamente anche le indicazioni ufficiali delle autorità sanitarie.
Il punto quindi non sono le misure drastiche o emergenziali. Il punto è ancora una volta con quale cultura e livello di fiducia reciproca si arriva a queste situazioni di emergenza. Se c’è una cultura condivisa della prevenzione, se c’è un dialogo continuo «in tempo di pace» con il cittadino, allora si possono chiedere sacrifici e imporre proibizioni. Se questa cultura manca oppure non è sufficientemente condivisa, purtroppo non si può pretendere di farla scattare «in tempo di guerra». Così, da un lato si dirà: «prevenzione e cautela», dall’altro si capirà «allarme rosso» e «si salvi chi può».
Per gestire emergenze come quella che stiamo vivendo servono indubbiamente competenze epidemiologiche e di sanità pubblica, ma anche intelligenza e conoscenza approfondita delle dinamiche sociali e comunicative. Da questo punto di vista, oltre alle conseguenze drammatiche per gli ammalati e alle ripercussioni negative sull’economia, la vicenda del coronavirus potrebbe lasciarci una lezione preziosa per cominciare a costruire una nuova cultura della prevenzione e della gestione delle emergenze.
Altrimenti non sfuggiremo nemmeno in futuro all’implacabile fenomeno della profezia che si autoavvera.