Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
IL FATTORE RESILIENZA
Sul coronavirus se ne sono dette e se ne diranno ancora tante, ma fino a quando non avremo i numeri e le condizioni per fare una seria analisi controfattuale («Cosa sarebbe successo se non ci fosse stata l’ordinanza di chiudere le scuole e limitare l’accesso negli altri luoghi di aggregazione e se non fossero stati fatti i tamponi nelle aree riconosciute come focolai?»), i commenti sulla gestione dell’emergenza da parte delle autorità pubbliche del Veneto (e dell’Italia tutta) vanno presi con cautela: tutti tranne uno, che per limpidezza, chiarezza e visione sistemica sovrasta gli altri e apre la strada per un dibattito equilibrato e solido. È l’affermazione di Giovanni Putoto, responsabile scientifico di Medici con l’Africa Cuamm, che riassume i comportamenti collettivi degli ultimi giorni dicendo che siamo di fronte a «una comunità disorientata e impaurita che vive una realtà della quale non ha elementi di comprensione» (cfr. Corriere del Veneto del 28 febbraio). Questo «disorientamento», in sè comprensibile, è stato amplificato dalla reazione di altre Regioni e di altri Paesi e ha innescato un autentico effetto domino che, per ora, ha messo in ginocchio la filiera del turismo e dell’ospitalità e in seria difficoltà diversi settori manifatturieri e dei servizi.
Ècome dire che in questa situazione nel nostro territorio c’è stata una carenza di resilienza sociale, che ha inceppato le infrastrutture sociali che permettono a persone, organizzazioni e comunità di resistere agli choc esterni e di tollerare, assorbire e aggiustarsi a fronte del cambiamento. La resilienza sociale non si tocca con le mani e non è osservabile e misurabile a priori: se c’è, si attiva «quando serve» (on demand) e si impiega «quanto basta». Il Veneto ha dimostrato di averne a sufficienza nelle esperienze della tempesta Vaia (26-30 ottobre 2018) e dell’Acqua Granda a Venezia (novembre 2019). Per l’infezione da coronavirus, l’anello debole è stato il modello di coordinamento tra le istituzioni coinvolte nel processo decisionale ai vari gradi verticali. In presenza di un’emergenza che è impossibile da circoscrivere con certezza in un territorio, alla decisione ottimale per la salute di un’area (isolamento immediato e quarantena di chi vive in un «focolaio») si contrappone quella altrettanto ottimale per la salute di un’altra area (impedire l’accesso o mettere in quarantena chi è transitato da quel «focolaio»). È noto da decenni che la somma di ottimi parziali non porta all’ottimo di sistema e gli studi organizzativi ci confermano che tali errori di coordinamento depotenziano i sistemi di controllo e riducono la capacità di prevenzione. Nella gestione di emergenze non circoscritte, «semoventi» e che reclamano decisioni rapide, servono forte supervisione e chiara regolazione da parte delle istituzioni centrali e senso di responsabilità da quelle territoriali. Poi entra in gioco la capacità del Paese di gestire la comunicazione a livello globale, ma solo dopo. Se dalle istituzioni ci si sposta alle imprese, il quadro cambia e migliora. In Veneto ci sono state diverse realtà che hanno dimostrato di avere resilienza organizzativa: hanno saputo mitigare gli effetti dell’imprevedibile shock esterno, riorganizzando in un battibaleno alcuni processi di lavoro con il ricorso allo smart working (cfr. anche Corriere del Veneto del 28 febbraio). Queste soluzioni non si possono applicare alle attività di fabbrica e quindi non potranno reggere le sorti del business per lungo tempo. Ma non è questo il punto. Chi, durante il periodo di chiusura delle scuole e degli altri luoghi di aggregazione, invece di lasciare a casa le maestranze ha chiesto di «lavorare da casa» ci dice varie cose. La resilienza organizzativa non si improvvisa, e in questo caso deriva dagli investimenti in trasformazione digitale che hanno permesso di ridisegnare un numero crescente di processi sia interni sia lungo le catene di fornitura. Le imprese possono allenarsi per essere resilienti, e in questo caso ciò è presumibilmente avvenuto con politiche formative capillari che hanno abilitato molte persone all’uso delle tecnologie digitali. La rapidità con cui è stato deciso e implementato lo smart-working, infine, ci dice quali sono le condizioni per adottare tale pratica e lasciano intendere che il vero ostacolo alla sua diffusione è di natura ideologica. Chi ha studiato come si comportano le società e le organizzazioni a fronte di eventi inaspettati o tragici distingue tra «fallimenti inevitabili» e «sorprese prevedibili». Passato lo choc della prima emergenza, non ci possiamo permettere né gli uni né le altre. E non è questione di salute pubblica.