Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
LA «COLPA» MEDICA
C’era il mondo prima del coronavirus. Poi un filamento di Rna lo ha fatto girare come uno yo-yo. Nel chiuso rivoluzionario delle nostre cellule e celle abbiamo avuto il tempo e la compassione per metterci nei panni di tutti. Pare che il virus abbia rianimato l’alleanza medico-paziente: gli stessi sanitari che venivano menati al pronto soccorso sono diventati eroi; i prezzolati esercenti di Big Pharma, gli spacciatori di farmaci e vaccini vengono ora supplicati di trovare farmaci miracolosi e vaccini.
Di questo parlavamo tra medici nella sala mensa del mio ospedale, in un silenzio chirurgico: ognuno ad un tavolo diverso con dei ferri in mano, un piatto al posto di un malato, la mascherina abbassata. Medici di ogni età e specialità, dal Top Gun appena rientrato dalla missione supersonica Covid 19 allo specializzando che getta la gioventù oltre l’ostacolo. Si è finito col parlare delle prime denunce per colpa medica che arrivano da parenti di malati Covid. Inevitabili, anche fondate eppure scandalose per scelta di tempo, quando l’ospedale insegue affannosamente l’istante inventando nuovi reparti e non può sfornare fotocopie di cartelle cliniche, né i medici possono curarsi degli avvisi di garanzia. Al contrario, sarebbe il tempo giusto per depenalizzare la colpa medica (uno dei motivi per cui pochi medici vogliono fare gli Anestesisti –Rianimatori tanto preziosi e scarsi ora). Italia, Polonia e Messico sono gli unici paesi al mondo in cui la colpa medica è considerata reato penale. E’ vero che la legge Balduzzi e la Gelli -Bianco hanno circoscritto molto i limiti della colpa penale, tuttavia un medico o un infermiere che non possono provare di non aver sbagliato rischiano la galera. Parlare di una giurisprudenza complessa, del bordo vertiginoso tra imperizia, imprudenza, negligenza nel tempo delle linee guida più o meno disattese non si prestava al nostro momento digestivo. Nondimeno eravamo d’accordo su una cosa: un sanitario che inventa diagnosi per vendere protesi o che avvelena malati è da condannare penalmente; il medico fallibile o stanco che confonde i puntini rossi di un morbillo con una meningite o un mal di schiena con una dissezione aortica, no. La rivoluzione del virus dovrebbe aver cambiato il nostro senso per la malattia, la cura, il denaro e la giustizia. Come il virus ci ha colti tutti, seminando caduti tra camici e pigiami, così succede per la singola sventura sanitaria. La disgrazia medica avviene per una molteplicità di cause convergenti, compresa l’incidentale o sistematica inadeguatezza delle strutture e del personale sanitario, o di chi li ha mal-preparati. Non può esserci un singolo colpevole: la malattia ha preso il corso peggiore perché il medico o la struttura sanitaria facevano parte della malattia. Erano malati anche loro. Quindi, così come adesso si chiede alla collettività, allargata agli altri paesi comunitari, di riparare i disastri della pandemia, per la stessa logica non si può chiedere ad una sola persona di pagare per complicanze o morti ritenute a torto o a ragione evitabili. E se davvero si chiede giustizia, perché tutto finisce nel silenzio di un risarcimento milionario? Se dolore e verità devono avere un prezzo - le assicurazioni professionali sono fatte apposta- non è etico che questo denaro scompaia dalla collettività. Sarebbe più equo investirne una parte in ricerca e formazione di medici, per riparare gli errori. L’errore umano, per difetto di cultura o per eccesso di stanchezza, si può curare. Ma costa.
Il virus che non ha fatto distinzione tra medici e pazienti potrebbe rafforzare la loro alleanza. La depenalizzazione della colpa medica, lungi dall’essere un basso istinto corporativo, potrebbe essere l’alto approdo di una sofferta e reciproca consapevolezza. L’impresa eccezionale è essere consapevoli, non punire i colpevoli.