Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
MOVIDA, LO STANCO RITUALE
C’è una parola che inizia a provocare fastidio, perché la si trova datata e fuori contesto. Confesso di non sopportare più la parola movida. Più la ritrovo sulla bocca di tutti e più mi appare incartata, impecorita, inutilizzabile se, davvero, vogliamo uscire da questa facilissima contrapposizione fra vecchi e giovani. Altrettanto inutilizzabile sia come schema storico, tantomeno meno come certamen dialettico.
La fine d’agosto è il tempo in cui comincia ad infittirsi l’elenco dei buoni propositi, anche di quelli culturali, per cui, la messa in questione della movida non risponde al solito balocco intellettualoide di ricercare una via d’uscita linguistica. Che esula dai goffi lai giovanilismi sull’obbligo della mascherina dopo le sei della sera. Sul finire dell’estate, la curva dei contagi sta correndo un po’ troppo, ma proprio per questo motivo, nonché per evitare il solito tran-tran della discussione ideologica, in bianco e nero, con gli stilemi della guerra fra curve e opposte tifoserie, forse, dico forse è il caso di staccare il piede dall’acceleratore, ogniqualvolta si affianca la parola movida alla quotidianità.
L’aperitivo, i bagnanti, le discoteche e quel senso d’immunità di chi le frequenta, ma anche chi le gestisce, qualsiasi cosa possa accadere, rappresentano categorie non più trattenibili, meglio, racchiudibili dalla parola movida.
Per monumentalizzazione storica, per rendere visivamente che cosa abbia significato la movida di Madrid per la cultura Europea, quel particolare fenomeno di creativo e, genuinamente, underground che ha scortato la fuoriuscita dalla dittatura franchista in Spagna e l’ingresso nella libertà e nel cambiamento sociale e culturale. Un soffio e uno squarcio mitologico celebrati in più di una pellicola di Pedro Almodovar. E importati ormai a tutte le latitudini, città venete «metropolitane» comprese. Decenni della stesso rito rischiano di tramutarsi in ritualismo con tanto di comitive organizzate, di viaggi organizzati alla ricerca di frissons seduttivi, coppie che fanno finta di non conoscersi.
Con la solita scusa «colore che la movida sa dare alla notte», il più delle volte, abbinato al facilissimo schema dell’inquietudine delle giovani generazioni, paradossalmente, incarnato da ultra-cinquantenni che ci sono cresciuti con la movida.
Fianco a fianco, due metafore che, per usura e inflazione, mostrano la corda, a presidio di una strettoia attraverso cui fare passare nuovi modelli e cadenze di socialità. Le foto della movida, i servizi dei telegiornali sembrano i ritratti dell’Ancien régime, all’indomani della restaurazione del Congresso di Vienna.
Francamente si va discorrendo di fenomenologie ultratrentennali, cioè di ere ed epoche ormai lontanissime. D’accordo l’autocompiacimento ribelle di ragazze e ragazzi, ma la domanda resta ancor più inevasa: «Movida per chi? E per che cosa»?
Sarebbe questa la domanda vera e sincera da rivolgere, in ordine sparso, per capire, non per giudicare. Per raccontare una storia diversa.
Chiedo scusa per il calembour, ma, davvero, un conto è la vida, altro conto la movida. Finalmente, per dare il caloroso e benaugurante benvenuto a tempi interessanti, come scrive il filosofo Slavoj Zizek. Eureka!