Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
La Milanesiana porta a Venezia l’arte di Cavaglieri
A Venezia fino al 2 settembre una mostra dedicata a Mario Cavaglieri. Le opere vengono dalla Collezione Cavallini-Sgarbi
Arte L’evento nel programma della Milanesiana, il festival diretto da Elisabetta Sgarbi «Devo questa esposizione a mio fratello Vittorio, che ha raccolto questi quadri»
Fascinose stanze ricolme di arabeschi, tappeti, vasi e paraventi di gusto orientale, collezioni d’arte e oggetti quasi sempre superflui, a restituire spazi senza tempo. Nelle tele liberty dalla pennellata esuberante di Mario Cavaglieri (Rovigo 1887-Pauvie-sur-Gers 1969) improntate all’edonismo ritroviamo atmosfere proustiane, dannunziane e viscontiane. È solo la rappresentazione ovattata di salotti chic e di una pittura di società ambientata in sfarzosi interni? Inserita nel carnet della 22esima edizione de La Milanesiana - il festival ideato e diretto da Elisabetta Sgarbi - , dedicata quest’anno al tema del progresso, si è inaugurata ieri, con una lettura di Nuccio Ordine e una lectio di Vittorio Sgarbi, la mostra «Mario Cavaglieri. Alla ricerca del tempo perduto» fino al 2 settembre a Ca’ Sagredo, Venezia, di Lorenza Lain. La rassegna presenta opere dalla Collezione Cavallini Sgarbi e riporta in Laguna un raffinato autore apprezzato dalla grande critica, da Longhi a Ragghianti e allo stesso Sgarbi, che nel 2007 gli ha dedicato la più ampia retrospettiva.
«Da Venezia – marca Elisabetta Sgarbi – Cavaglieri non se n’è mai andato e le origini veneziane dei genitori non si sono mai allontanate da lui. Nelle sue macchie di colore, nei suoi interni ho sempre intravisto quelle forme tremolanti che si creano nei riflessi d’acqua tra i canali veneziani». Città importante quella dogale per Cavaglieri, ricordando le sue esposizioni giovanili capesarine e le ripetute partecipazioni alla Biennale. Di famiglia ebrea, formatosi a Padova col pittore Giovanni Vianello e compagno di studi di Felice Casorati, indelebile rimane la lezione dei maestri francesi, da Vuillard e Bonnard a Matisse, appresa in un soggiorno parigino del 1911. Sceglierà la Francia come luogo della sua vita, una sorta di esilio volontario per sfuggire alla Storia: lontano dalle accademie come dalle avanguardie, abbandona la pennellata larga per spremere i tubetti di colore direttamente sulla tela dipingendo la spensieratezza nei terribili anni bellici. «Tendo a vedere – spiega Elisabetta Sgarbi - la gioia e libertà dei quadri di Cavaglieri come una conquista. Quest’ostinazione dell’arte ad affermare in purezza sé stessa mi sembra di grande attualità».
Guardando Interno (1911), Le trophée (1916) o Il cilindro (1930), ecco che la sua pittura ci porta altrove, come dice Vittorio Sgarbi: «Una texture che finisce per prevalere su ciò che rappresenta, diventando uno spazio totale e totalizzante: la materia spessa e densa fa pensare a Lucio Fontana o a Pollock, nella composizione senza limiti c’è un piacere libero quasi come nell’arte informale». Che messaggio porta l’autore veneto in tempi di pandemia? «Devo la mostra – conclude Elisabetta Sgarbi - a mio fratello Vittorio che ha collezionato questi dipinti. Anche lui, come Cavaglieri, ha reagito a un brutto periodo, di pandemia e malattia, scrivendo il libro Ecce Caravaggio (La nave di Teseo), sul ritrovamento dell’Ecce Homo a Madrid. Metto vicino Vittorio e Cavaglieri per dire che forza può avere l’arte per tirarci fuori dalle secche della vita». Le stanze di Mario, un rifugio dell’animo e un ponte verso il futuro.