Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

Henry morì allo stesso modo Il padre: «I nostri ragazzi uccisi da persone violente» Il legale: «C’è tanta omertà»

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PADOVA Da venerdì, quando si era diffusa la notizia della comparsa di Ahmed, la famiglia di Henry Amadasun ha ripercorso il dramma che li ha lacerati nel settembre scorso. Tutto come in un film già visto: il messaggio di addio, le ricerche e infine quel ponte maledetto e il corpo in fondo al fiume. Henry era un ragazzo di origine nigeriana, aveva 18 anni, abitava a Cadoneghe, sparì nel nulla sabato 18 settembre. Il giovane era uscito con degli amici, poi se ne era andato da solo in bicicletta, e alle 23 aveva mandato un messaggio nella chat della compagnia: «Non me ne vogliate, non so se ci rivedremo». Si è tolto la vita nello stesso punto in cui giovedì si è ucciso Ahmed, lo hanno ritrovato il lunedì successivo, due giorni dopo l’addio. Ieri il padre di Henry, Evans, ha parlato con il suo avvocato Marcello

Stellin: «Troppe similitudi­ni, le persone che hanno fatto male ad Ahmed potrebbero essere le stesse che hanno fatto male a Henry» ha riferito l’uomo al legale.

La famiglia Amadasun e l’avvocato Stellin non pensano che Henry sia stato spinto già dal ponte: «Parliamo di un altro tipo di violenza – spiega l’avvocato – noi non ci siamo mai arresi, la procura non aveva disposto subito l’autopsia, l’abbiamo pretesa noi, e dall’esame del corpo emerge che non ci sono state violenze sul corpo di Henry, ma in questi mesi abbiamo indagato, abbiamo lavorato, a breve avremo gli elementi per chiedere la riapertura del caso». La famiglia è sempre stata convinta che qualcuno avesse preso di mira Henry fino a portarlo a odiare la vita. Henry era un ragazzo in gamba, frequentav­a il Marconi, a scuola non aveva particolar­i problemi, certo non era il più secchione della classe, ogni tanto qualche insufficie­nza, ma era nella media. In quel periodo il padre di Henry viveva all’estero, la mamma Clara e un altro fratello stavano invece in una casa a Cadoneghe. Quando è successa la tragedia il padre del ragazzo si è precipitat­o a casa, e hanno subito voluto un avvocato perché loro all’idea del suicidio non hanno mai creduto. Sanno i nomi e i cognomi di tutti i suoi amici, e sanno anche chi potrebbe sapere qualcosa in più ma non parla. Lo sa soprattutt­o Evans che il giorno del funerale ha cacciato dalla cerimonia un ragazzo che ritiene responsabi­le del malessere che gli ha ucciso il figlio. «Vattene tu non devi stare qui», gli disse. La procura non indagò per istigazion­e al suicidio, il caso, su cui indagarono i carabinier­i, si chiuse quasi subito, con molto meno clamore rispetto a quello di Ahmed. Ma l’avvocato Stellin ha preso a cuore la famiglia che parla l’italiano poco e male e che non ha gli strumenti per muoversi nel complesso mondo dell giustizia italiana. «Da settembre a oggi abbiamo sentito tanti ragazzi e anche le loro famiglie – spiega ancora l’avvocato Stellin – cosa abbiamo trovato? Tanta omertà, non attribuisc­o questo silenzio alla nazionalit­à, credo piuttosto che tra ragazzi ci sia un codice particolar­e, che conoscono solo loro». Un codice silenzioso che viene coltivato nelle chat e nei social con profili segreti che aprono mondi in cui gli adulti non mettono piede. È in quei mondi che si annidano faide e ritorsioni, bullismo, violenze. Solo con l’aiuto di qualcuno che appartiene a quel microcosmo si può capire che cosa accade nella mente di un diciottenn­e, o di un quindicenn­e che decide di farla finita.(r.pol.)

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