Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
I Vivarini, la storia di una bottega La grande mostra a Conegliano ricostruisce l’avventura dei pittori veneziani
Si è aperta a Conegliano, a
Palazzo Sarcinelli, la mostra
«I Vivarini, lo splendore della pittura tra Gotico e Rinascimento». Il curatore Giandomenico Romanelli racconta, in quattro puntate,
l’avventura di questa straordinaria bottega veneziana.
Non
è insolito nella storia della pittura veneziana trovare che un nucleo famigliare rivesta un ruolo importante nell’elaborazione e nell’affermazione di una stagione, di un genere, di una scuola artistica: così fu per i Bellini, per la famiglia di Tiziano, per la bottega dei Veronese e, via via, per Longhi, Guardi, Tiepolo e molti altri ancora. La bottega-famiglia si faceva impresa e piazzava i suoi prodotti, coltivava i suoi committenti, portava avanti un proprio inconfondibile linguaggio; custodiva i suoi segreti, trasmetteva i suoi saperi, discuteva le sue scelte d’arte e i suoi capisaldi estetici. Così è Bartolomeo Vivarini «San Michele Arcangelo» (part. polittico di Scanzo), 1488, Bergamo, Accademia Carrara stato anche per i muranesi Vivarini: Antonio, il capostipite, il più giovane fratello Bartolomeo e il figlio di Antonio, Alvise. Famiglia di vetrai, passarono alla pittura con atelier a Santa Maria Formosa: da lì uscì per sessant’anni e più (dal 1440 al 1503 circa) un fiume di polittici, pale d’altare, tavole devozionali, santi e scene religiose, destinato a espandersi e quasi a esondare su un territorio vastissimo: dalle terre lombarde all’Istria, dalla Dalmazia alla Puglia. Ma continuarono a firmarsi alternativamente «de Muriano» oltre che «de Venexia» ribadendo e vantando un’irrinunciabile origine. Tre protagonisti, cui va aggiunto il cognato dei due maggiori, Giovanni d’Alemagna, tedesco. A loro va riconosciuto un ruolo centrale nella storia della pittura veneziana nel segnare e marcare il passaggio dalla stagione dell’ultimo gotico («fiorito») al Rinascimento. Ciascuno con fisionomia, caratteri, scelte stilistiche inconfondibili. Antonio fu il vero traghettatore dalle delizie dalla pittura elegantissima e «cifrata» di Jacobello, Giambono, Gentile da Fabriano alla tridimensionalità prospettica, alla dignità monumentale, alle levigate anatomie di una stagione ancora acerba ma che prometteva esiti straordinari. Bartolomeo seppe elaborare uno stile inconfondibile, formatosi sulle invenzioni di Mantegna ma attento e sedotto dalle ricerche dei toscani e dal ciclone culturale di Donatello. Alvise, infine, toccato dalle novità di Antonello da Messina e dalle ricerche di Giovanni Bellini, ma pronto a lanciarsi in nuove sfide e sperimentazioni inusitate, interrotte purtroppo dalla morte prematura.
I Vivarini hanno goduto di fortune alterne. Entrati nel cono d’ombra delle affermazioni strepitose della linea Bellini-Giorgione-Tiziano, essi ritrovano finalmente la luce e rivelano l’originalità, la perfezione di una pittura articolata e ricchissima, dimostrando che l’intera avventura dell’arte veneziana del Rinascimento non può prescindere da un ventaglio di esperienze e ricerche racchiuso nel nome e nelle complesse vicende di una raffinata famiglia di ex-vetrai.
(1. Continua)