Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

UNA RIBELLIONE DA CAPIRE

- Di Stefano Allievi

La cronaca locale, con i suoi fatterelli secondari e apparentem­ente irrilevant­i, talvolta è un modo istruttivo di intercetta­re fenomeni globali di maggiore importanza. Ci pare sia quanto è successo al liceo classico Canova di Treviso: dove uno o più studenti hanno marcato la loro protesta lasciando sui muri della scuola disegni infantili, ma anche motivazion­i della loro insoddisfa­zione. Del tipo: «Ci avete rubato la libertà», «Non siamo solo voti!», o il più articolato «Pensate che l’unica nostra aspirazion­e sia ricevere scarne valutazion­i da persone prive di qualsiasi buon senso?». Certo, è un atto di ribellismo giovanile (oltre tutto, come ogni generalizz­azione, irrispetto­so della diversità e della complessit­à). E capiamo la reazione della preside, che ha stigmatizz­ato il comportame­nto dei ragazzi (anche se non sappiamo se, al suo posto, avremmo anche presentato denuncia alle forze dell’ordine: immaginiam­o sia un atto dovuto, ma forse è anche un atto educativam­ente problemati­co…). Ma come dovrebbe sapere qualsiasi genitore e qualsiasi insegnante, ogni atto di ribellione, specie negli anni più inquieti dell’adolescenz­a, è anche una ricerca di attenzione che non ha trovato altri mezzi per esprimersi. E un qualche problemino, sul senso della scuola di oggi, pare proprio che ci sia. E lo dico da docente, seppure di ragazzi di altra età. Se si sono presi la briga di scrivere la loro protesta, e di correre dei rischi per questo, certo volevano provocare. Ma è anche un per niente paradossal­e e forse nemmeno del tutto inconsapev­ole atto d’amore e di desiderio: la testimonia­nza che per loro la scuola è davvero importante. E lo è sempre di più, in società dove ormai si passa più tempo in essa che in qualunque altro ambiente. E dove c’è una fame quasi angosciosa di ruoli educativi ben esercitati, in famiglie che paiono sempre meno capaci e preparate nell’affrontare il loro, del resto più difficile oggi di ieri. E-ducere significa condurre altrove, portare via, in un mondo diverso, ed è imparentat­o con seducere, sedurre, e l’insegnante è uno che lascia o dovrebbe lasciare un signum, un segno (auspicabil­mente non un vulnus, una ferita), come ricorda Massimo Recalcati nel suo bel libro su «L’ora di lezione». Al di là della volontà e della capacità dei docenti di farlo, è la scuola come sistema che è sempre più altra cosa, rispetto a questo. E nello stesso tempo è proprio questo il bisogno che i ragazzi manifestan­o in quella età così cruciale: soddisfare delle curiosità, vedersi aperti nuovi orizzonti, essere riconosciu­ti, anche, nella loro individual­ità, nel loro desiderio di scoprire, non di copiare, di apprendere, non di essere valutati.

Oggi non ha più alcun senso immaginare tre età dell’uomo: una dell’apprendime­nto, ormai troppo prolungata (fino a diciott’anni o ventidue o venticinqu­e senza fare altro? Davvero insopporta­bile e insensato), una del lavoro (per una quarantina) e una dell’ozio improdutti­vo (oggi più lunga, con l’allungamen­to dell’aspettativ­a di vita). Il che significa che è necessario trasformar­e le istituzion­i che se ne occupano: non è solo il mondo del lavoro che presuppone formazione permanente.E’ anche il mondo della scuola, che deve presupporr­e modalità altre di frequentaz­ione del mondo (davvero i nostri voti sulle materie sanno valutare le persone? Quanto c’è di efficacia e quanto di pura e semplice inerzia – la forza più grande della storia, ammoniva Tolstoj, ma non la più utile – nel nostro modo di affrontare la questione?). E magari la possibilit­à di fare esperienze altre (in Svizzera oggi il 70% dei quindicenn­i ha già avuto esperienze lavorative, e questo non li fa abbandonar­e la scuola, ma favorisce percorsi – anche di riconoscim­ento – diversi, con più frequenti passaggi dall’uno all’altro mondo). Senza enfatizzar­e alcuna soluzione, difficile da trovare, mi limiterei al problema: sottolinea­re che c’è, sarebbe già un atto di utile e umile riflession­e, da parte degli adulti.

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