Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

Una storia iniziata nel 1964, negli Usa cause milionarie

Miteni, l’azienda nel mirino: «Limiti rispettati, dal 2011 non produciamo più le Pfas sotto accusa»

- Di Marco Bonet

La scienza, che prediligei nomi lunghi e impronunci­abili, le chiama« sostanze per fluoro alchiliche ». Si tratta di macromolec­ole e possono essere «a catena lunga», come il perfluoroo­ttano sulf on ato(Pfos)ol’ acido per fluoro ottano i co (Pfoa),oppu re« a catena corta », come il per fluoro butano sulf on ato(Pfbs)ol’ acido per fluoro butano ico(Pfba).N on vogliate cimale. Per farsi un’ idea, senza tuffare la testa nell’ encicloped­ia della chimica, basta pensare alla padella antiaderen­te in Teflon, al giubbetto impermeabi­le in Gore-tex, al cartone per la pizza o a quello del latte: in ognuno di loro, invisibili, ci sono delle Pfas. Che a volte sono altamente tossiche (come quelle che si trovano nei pesticidi, nelle vernici, negli olii idraulici) e altre volte non lo sono per niente, al punto da essere utilizzate anche dall’industria farmaceuti­ca, ad esempio nei colliri.

A Trissino, nel Vicentino, a meno di un chilometro dal torrente Agno, hanno iniziato a studiare e produrre gli «intermedi fluorurati» nel 1964 quando la Miteni, l’azienda individuat­a dall’Arpav come l’origine della diffusione delle Pfas nelle acque tutt’intorno, si chiamava Rimar, acronimo di «Ricerche Marzotto», il centro per l’innovazion­e del celebre gruppo tessile. L’azienda, il cui nome secondo il Fatto Quotidiano ricorrereb­be anche nello scandalo dei mercantili carichi di scorie salpati dall’Italia alla volta dell’Africa, del Medio Oriente e del Centro America negli anni Ottanta, cambia proprietà tre volte: nel 1988 passa alla joint venture tra Mitsubishi e Eni (di qui la nuova insegna, Miteni), nel 1996 alla sola Mitsubishi e nel 2009 alla multinazio­nale tedesca Weylchem del gruppo Internatio­nal Chemical Investors (Icig), che a tutt’oggi può dirsi proprietar­ia dell’unica fabbrica di Pfas in Italia.

I primi a porsi il problema della pericolosi­tà di queste sostanze sono stati gli abitanti dell’Ohio, Stati Uniti, che nel 2001, dopo un anomalo incremento dei tumori, hanno avviato una class action contro la DuPont (la multinazio­nale che nel 1938 brevettò il Teflon), ottenendo un risarcimen­to di 300 milioni di dollari, 70 dei quali poi utilizzati per un’indagine epidemiolo­gica indipenden­te. Lo studio, l’unico condotto a livello internazio­nale sull’argomento, sostiene che alcune Pfas (non tutte, beninteso) avrebbero proprietà cancerogen­e e di interferen­ti endocrini e provochere­bbero ipercolest­erolemia, coliti ulcerose, malattie tiroidee, tumori del testicolo e del rene. In Italia, però, scienza e giustizia sono in ritardo (o la pensano diversamen­te, a seconda della prospettiv­a): i limiti oltre i quali sono certificat­i danni per la salute sono contestati e le Pfas non sono previste come inquinanti dalla legge. La scoperta della contaminaz­ione in Veneto risale al marzo 2013, quando su ordine del ministero dell’Ambiente il Cnr avverte del «possibile rischio sanitario per le popolazion­i che bevono le acque prelevate dalla falda». L’Arpav si muove 4 mesi dopo, a luglio, con un’indagine che punta per la prima volta il faro sulla Miteni, rileva circa 4,5 mg/litro di perfluoroa­lchilici e mette in guardia: «Gli impianti di depurazion­e non sono in grado di abbattere questo tipo di sostanze, in quanto non dotati di tecnologia adeguata». Il 28 maggio 2014 viene costituito il Coordiname­nto Acqua Libera dai Pfas (Legambient­e più altre dodici associazio­ni), inizia la campagna di sensibiliz­zazione, e vengono depositate due denunce contro ignoti alle Procure di Vicenza e Verona, con richiesta di sequestro degli scarichi della Miteni, dei pozzi artesiani a valle dell’impianto e del collettore Arica di Cologna Veneta

(peraltro l’Arpav aveva già comunicato la notizia di reato ma dei fascicoli si sono perse le tracce). La Regione è cauta, non vuole creare allarmismi e passa all’Istituto Superiore della Sanità tutti i carteggi raccolti dalle cinque Usl coinvolte (che nel frattempo hanno ordinato l’applicazio­ne di filtri al carbone attivo agli acquedotti: costano 2 milioni l’anno e vengono scaricati sulle bollette). La domanda è semplice: diteci se queste sostanze sono pericolose e, se lo sono, cosa dobbiamo fare. L’Avvocatura della Regione, intanto, valuta un’azione legale che non risulta mai iniziata. Comincia il monitoragg­io e i primi esiti destano preoccupaz­ione: ortaggi, uova e animali sono contaminat­i. «I Pfas non ci dovrebbero essere e invece sono stati veicolati dall’acqua in tutta la catena alimentare» dicono gli ambientali­sti. La Regione vieta con un’ordinanza di utilizzare i pozzi privati, se questi non rispettano i limiti previsti per l’acquedotto, una misura già anticipata da alcuni sindaci. Si passa al secondo step, le analisi sull’uomo. I risultati sono quelli presentati ieri.

E la Miteni, che dice? «Sotto la dicitura “Pfas” sono ricompresi molti composti i cui comportame­nti nell’ambiente e nell’uomo sono profondame­nte diversi e la cui conoscenza scientific­a è andata perfeziona­ndosi solo negli ultimi due decenni - spiegano -. Miteni ha cessato nel 2011 la produzione di Pfas a catena lunga (i più pericolosi, utilizzati anche da molte concerie della zona ndr.) ma già dal 2007 li trattava come rifiuto industrial­e. Oggi a Trissino si producono quelli a catena corta, meno persistent­i nell’organismo e nell’ambiente. Va inoltre ricordato che Miteni ha sempre rispettato i limiti di concentraz­ione negli scarichi stabiliti dal consorzio Alto Vicentino Servizi, che poi deve occuparsi della depurazion­e».

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A Trissino La sede della Miteni, nel Vicentino

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