Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

CARNEFICI (IN VETRINA) E VITTIME

- Di Gabriella Imperatori

Troppe esibizioni di criminali, in tv e sui giornali, negli ultimi tempi. Non se ne sentiva il bisogno. Ha cominciato sul primo canale Rai Salvuccio Riina, al «confino» a Padova, che durante l’intervista a Porta a Porta non ha pronunciat­o una sola parola di condanna del padre (né peraltro dell’intera mafia), perché puntava al duplice scopo di evitare il prolungame­nto del 41 bis a un feroce assassino, magari buon padre e buon marito, e di lanciare il proprio libro (operazione riuscita). In questo caso è evidente l’interesse personale e famigliare, nonché l’esibizioni­smo e il narcisismo di uno che in carcere c’è stato ma è cambiato ben poco.

Ha proseguito Pietro Maso, con una lettera, da assassino ad assassino, al killer romano del giovane Varani. Una lettera in cui, mentre afferma di non poter biasimare il «collega» torturator­e ed omicida, non si sogna di spendere una riga per la vittima, mentre ricorda bene (e forse addirittur­a giustifica?) i motivi che lo hanno spinto, molti anni fa, alla strage dei genitori: le ragazze, la macchina di lusso, una vita allegra e spendaccio­na, per cui occorreva subito denaro, tanto denaro a qualsiasi costo. Nessun pentimento, nessuna trasformaz­ione evidente, come prova anche la minaccia di morte nei confronti delle sorelle. La pena l’ha scontata, ma la riabilitaz­ione non sembra aver compiuto la ristruttur­azione della sua personalit­à disturbata e incentrata solo su di sé.

Si dovrebbe allora concludere che chi ha ucciso non ha più il diritto, a condanna espiata, di togliersi per sempre l’etichetta di «mostro»?

Non è così: purché si rispetti quel silenzio e quella discrezion­e che si addice a tutti gli omicidi, che si manifesti riguardo per le vittime e le loro famiglie a cui è stata distrutta la vita.

Lo hanno capito quei terroristi che hanno cambiato vita evitando di mettersi in mostra e soprattutt­o di rivendicar­e il passato.

Ben meno grave mi sembra il caso di Doina Matei, un tempo conosciuta come la «killer dell’ombrello», che ha già scontato parte delle lunga pena, che ha chiesto cento volte perdono e compiuto un percorso di riabilitaz­ione che le ha ottenuto semilibert­à e permessi-premio. Rientrati però, l’una e gli altri, per la leggerezza di aver postato su Facebook delle sue foto in bikini al Lido di Venezia, con un’espression­e sorridente, interpreta­ta dal padre della vittima come segno di vittoria.

Non ho il diritto né l’arroganza di giudicare il giudice che ha rispedito alla Giudecca questa ragazza che ha avuto una giovinezza difficile e magari sbagliata, ma che sta ancora pagando il suo debito, perché la semilibert­à non è una sospension­e ma una prosecuzio­ne della pena. Certo non posso non capire anche quel padre che ha perso una figlia, uccisa per motivi futili.

Per questo chi ha scontato o sta scontando una pena, dovrebbe sempre tener conto del dolore che ancora sta spargendo: evitando, cioè, ogni atteggiame­nto che possa sembrare esibizioni­stico e cercando di rientrare in un anonimato che non faccia sponda ad alcun facile linciaggio mediatico.

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