Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

Dove finiscono i rifugiati dopo l’accoglienz­a

Chi ottiene asilo esce dagli hub e dai radar, ma deve ancora costruirsi una vita autonoma. Il ruolo degli Sprar e le storie di chi lavora per capire come si sfugge a un destino da sbandati: «Se uno fa il pusher, è solo colpa sua»

- di Roberta Polese

VENEZIA Oggi è un giorno speciale per il 24enne Sulay. Si sveglierà alle 4 del mattino per prendere un treno che da Piove di Sacco (Padova) lo porterà allo stabilimen­to della Fincantier­i a Marghera, dove fa l’operaio. E alla fine del turno lui, che tre anni fa era arrivato dal Gambia in un barcone, passerà per l’ultima volta nella casa che il Comune gli aveva messo a disposizio­ne con il progetto Sprar, prenderà gli scatoloni e comincerà a fare quello che tutti i giovani sperano di fare alla sua età: il trasloco. Addio accoglienz­a, addio Sprar: camminerà con le sue gambe. Una bella soddisfazi­one per lui che ha le spalle larghe e di orrori ne ha visti un bel po’. Ieri sera è passato nella sede della cooperativ­a Città Solare di Padova, che lo ha seguito passo passo durante la sua formazione. Prima di lasciare la stanza ha guardato Angela, la ragazza che ha seguito il suo percorso e le ha detto: «...magari domani ti chiamo ok? così ti dico come va», «Certo – gli risponde lei – mandami le foto». Ecco come avviene il distacco, ecco il passaggio cruciale. Il passo verso l’autonomia.

Si è detto che dei 38mila accolti in Veneto dall’inizio dell’accoglienz­a solo un quarto riceve lo status di rifugiato e quindi accede con più facilità ai percorsi Sprar, e il resto del panorama-profughi è fatto di contraddiz­ioni: ci sono gli stranieri che fanno i picchetti davanti alle questure perché non sanno dove andare quando vengono espulsi dai programmi di protezione, ci sono le proteste nei centri di accoglienz­a, ci sono anche molti richiedent­i asilo che finiscono a fare i barboni: non delinquono, forse, ma si perdono, diventano «fantasmi». Da soli, non ce la fanno. E mentre si parla degli sbarchi diminuiti (c’è chi dice per «merito» di Minniti, c’è dice «colpa» di Minniti che ha depotenzia­to il lavoro delle navi Ong mentre gli stranieri continuano a morire in mare) non resta che comprender­e che fine fanno i profughi usciti dal radar dell’accoglienz­a veneta.

«Per capire il sistema basta qualche percentual­e - spiega Maurizio Trabuio della coop Città Solare, memoria storica dell’accoglienz­a, lui che per primo gestì l’emergenza sbarchi albanesi negli anni ‘90 - Qui al nord il 30-35% degli stranieri che entrano nei Cas (Campi di accoglienz­a straordina­ria – Bagnoli o Cona per intenderci) ottiene lo status di protezione internazio­nale che per i profughi si declina in tre possibilit­à: o si diventa rifugiati politici (per 5 anni), o si entra in un programma di protezione umanitaria (un anno) o di protezione sussidiari­a ( due anni). Di questo 30-35% solo la metà viene ammessa ai progetti Sprar dei comuni, non perché non li vogliono, ma perché ancora pochi comuni li fanno. Ma che fine fa il 70% di quelli che non ottengono lo status di rifugiati? Questi stranieri di norma compilano il modulo C3 per ricevere la protezione internazio­nale e dopo 60 giorni da quando compilano quel modulo possono lavorare, ma non hanno un codice fiscale, conoscono male la lingua, non hanno un domicilio, non è difficile che cadano nelle reti di chi li sfrutta» . Quindi la colpa è delle istituzion­i?: «La colpa non è mai delle istituzion­i, la colpa è di burocrati lenti e funzionari non adeguatame­nte preparati, ma se qualcuno finisce a spacciare la colpa è soprattutt­o sua: se uno non ha voglia di lavorare e gli piacciono i soldi facili non c’è santo che tenga, accade per i giovani italiani perché non dovrebbe accadere per gli stranieri?».

La dimostrazi­one che la chiave di volta sta anche nella volontà di un riscatto sociale, è Romarik, 33 anni della Costa D’Avorio, giunto in Italia nel 2014. È stato accolto a Battaglia Terme nella coop Ecofficina (poi Edeco), ha fatto domanda di protezione internazio­nale, ed è stata rifiutata. Non è passato per lo Sprar. Eppure ha lo stesso un lavoro regolare e vive da solo. «Non potevo credere che non avessero creduto alla mia storia – spiega Romarik – ho cercato in tutti i modi di imparare l’italiano, ho frequentat­o i corsi facoltativ­i in cooperativ­a, ho imparato a leggere e scrivere e ci sono tornato, in commission­e, a raccontare la mia storia, e alla fine mi hanno creduto. Nel frattempo avevo imparato così bene l’italiano che ora faccio il mediatore culturale per Edeco, ho uno stipendio, vivo da solo». Fuori dalla rete dello Sprar ce l’ha fatta anche Bakari Camara, giovanissi­mo ex profugo accolto dalla comunità di Monselice. Era sempre al parco Buzzaccari­ni, chiedeva a tutti di poter fare qualcosa: spazzare per terra, raccoglier­e foglie, sistemare le piante. E alla fine è stato il lavoro a trovare lui: lo ha assunto una ditta che si occupa di verde. E siccome Bakari corre, e corre pure veloce, è entrato nella squadra dei fondisti delle Fiamme Oro. Neanche lui ha avuto l’accompagna­mento dello Sprar, eppure può dire di aver raggiunto il suo obiettivo di autonomia.

Fa invece il receptioni­st Umair Muhammad, 27 anni Pakistano, che con lo Sprar di Piove di Sacco ha imparato l’italiano e ha preso il diploma di terza media. Sta concludend­o il tirocinio, spera in un’assunzione e anche in una vacanza: «Vorrei andare in Sardegna a ottobre - dicono che è bellissima e spero costi poco, la devo vedere». Fra un turno e l’altro al lavoro vede gli amici, gli piace il pallone e vive da solo.

I numeri, anche solo per alcune province, sono indicativi: la coop Coges cestisce a Padova 38 posti Sprar, 10 hanno un lavoro stabile con un reddito ancora troppo basso per essere autonomi. A Venezia ci sono 18 posti e 6 stanno facendo un tirocinio, che si spera diventi un lavoro stabile, 5 un lavoro ce l’hanno già (ma non abbastanza remunerati­vo da consentire l’autonomia).

Quattro storie di chi ce l’ha fatta. Ma non è detto che gli altri finiscano per forza nella rete del crimine. Alcuni (pochi) vengono rispediti in patria, altri lavorano lo stesso, con mille difficoltà. Spacciator­i e criminali ci sono, e le cronache li registrano ogni giorno. Sono quelli che cercano una vita facile, o forse si stancano di attendere l’esito delle commission­i e dei ricorsi. Una burocrazia più rapida e più Comuni che aderiscono allo Sprar forse consentire­bbero di avere più Sulay, più Romarik, più Umair e Bakari. E meno foto segnaletic­he con volti stranieri nelle bacheche delle questure.

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Fuori dalla rete dell’accoglienz­a, dentro al mondo del lavoro Partendo dall’alto e in senso orario Soulay Javonah, 24 anni, lavora a Finmeccani­ca, vive da solo. A lato Bakari Camara, fuori dalla rete dello Sprar, ha trovato lavoro a Monselice perché si...
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