Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
Quando la bandiera della Serenissima univa anziché dividere
Quando la Serenissima era una potenza ammirata e rispettata da tutti, il vessillo col leone sventolava nei porti più lontani del Mediterraneo. A Istanbul ed Alessandria, Famagosta e Jaffa, Odessa e Sinope sul mar Nero, i fondachi (dall’arabo funduk, deposito) traboccavano di merci e ribollivano di traffici. E i mercanti veneziani andavano d’accordo e facevano affari con tutti, arabi e turchi, indiani ed etiopi, ebrei e cristiani, non c’erano barriere né dì razza né dì religione né tantomeno di nazionalità. Questa straordinaria capacità di relazione, basata su interessi concreti e sulla convenienza per entrambe le parti ha fatto grande e potente la Serenissima. La sua capacità, forse unica nella storia, di assimilare ed identificarsi le ha consentito di dominare le rotte commerciali per secoli, al punto che perfino durante le micidiali guerre coi turchi i mercanti veneziani continuavano a combinare i loro lucrosi affari coi loro colleghi ottomani.
Quelli che oggi Zaia considera dei nemici, per la Repubblica erano preziosi soci in affari, rispettati e benvoluti e la bandiera col leone, sul pennone di una galea come sul tetto di un fondaco, ricordava a tutti che all’ombra di quel prestigioso vessillo regnava la libertà e la concordia.
Questo era ed è il significato autentico della bandiera di San Marco. Dobbiamo dirlo era soprattutto la bandiera di Venezia, città aperta al mondo, culturalmente molto evoluta proprio grazie a quei traffici e contatti, più che quella assai povera, triste e dimessa della popolazione delle campagne che avevano i consueti problemi di sopravvivenza. Altra cosa è quella indegnamente oggi sventolata dai leghisti, un drappo che divide in buoni e cattivi, nord e sud, bianchi e neri. Di simboli usati per dividere, quando il pianeta terra è sempre più piccolo e fragile, diffidiamo, perché costruiscono una barriera fittizia, che stravolge la storia e diventa arrogante.