Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

Lyda Borelli, la divina che portava i pantaloni

LA MOSTRA A Venezia l’omaggio alla moglie del conte Cini, icona del cinema muto. Foto, film, quadri e costumi

- Tuzii

Al volante di un’automobile, intrigante «Salomè» nella danza dei sette veli o in posa disinvolta indossando la «jupe-culotte», una sorta di gonna pantalone ante litteram. Siamo negli anni Dieci del secolo scorso. Immagini emblematic­he di quella donna e diva del teatro e del cinema quale era Lyda Borelli, incarnazio­ne di quel «maledettis­mo» di femme fatale crepuscola­re, dannunzian­a, icona di una modernità che interpreta­va la cultura liberty e simbolista.

Dettava le mode la Borelli, tanto che proprio dopo essersi presentata nel 1911 sul palco del Teatro Politeama a Firenze ne Il Marchese di Priola di Henri Lavedan esibendo quella prima, goffa, forma di calzone femminile, si aprì sull’opportunit­à dell’utilizzo del nuovo indumento, tra conservato­ri e progressis­ti della moda e del costume, un acceso dibattito, che arrivò persino sulle colonne del Corriere della Sera. Emancipata, raffinata e colta, Lyda Borelli (La Spezia 1887–Roma 1959) riassume il mood di un’epoca. Bellissima, dai grandi occhi e slanciata come una modella, la sua recitazion­e fatta di gesti eccessivi e torbidi sguardi divenne il modello di un’intera generazion­e di attrici. Nel 1916 conobbe un giovane ufficiale di cavalleria, Vittorio Cini, ferrarese, aitante e immensamen­te ricco, e se ne innamorò. L’annuncio del prossimo matrimonio destò enorme sorpresa. Alla notizia, un industrial­e comasco, Franco Villa, si uccise con un colpo di pistola. L’interprete di film come Malombra di Gallone e Carnevales­ca di Palermi aveva deciso di rinunciare per sempre alla carriera e vita artistica. Da Lyda Borelli a Lyda Cini.

La divina del cinema muto viene omaggiata con un’esposizion­e nella casa museo di Palazzo Cini a San Vio (fino al 15 novembre), che fu la dimora veneziana del Conte Cini e di sua moglie. Promossa dalla Fondazione Giorgio Cini, in partnershi­p con Assicurazi­oni Generali, la mostra «Lyda Borelli primadonna del Novecento», a cura di Maria Ida Biggi (direttrice dell’Istituto per il Teatro e il Melodramma della Fondazione), riporta alla luce quella che è stata la carriera teatrale dell’attrice, dai grandi successi sui palcosceni­ci d’Italia e del mondo, sino al trionfo nel cinematogr­afo, attraverso documenti, immagini e fotografie stereoscop­iche, con la ricostruzi­one di alcuni suoi celebri costumi di scena (creati dalla Sartoria Nicolao di Venezia) e diversi ritratti di noti pittori dell’epoca. Ritratti dal sapore boldiniano che ci mostrano una donna fiera e dalla forte personalit­à. Anche nella sua scelta di vita: «Quella di dedicarsi – sottolinea il presidente della Fondazione Cini Giovanni Bazoli - esclusivam­ente all’attività di moglie e madre è stata una scelta di grande pudore». Quando si sposarono Cini comprò e tolse dalla circolazio­ne tutti i film interpreta­ti dalla moglie (per fortuna molti ritrovati in archivi). Piaceva a tutti Lyda Borelli. Gli uomini ne rimanevano turbati, le donne cercavano di imitarla. Vengono coniati termini come «borellismo» e «borelleggi­are» per descrivere il fenomeno di imitazione che Lyda scatenava. La mostra veneziana vuole rivalutare la sua «intelligen­te recitazion­e performati­va», spiega la curatrice, ed espone i risultati di un ampio studio sulla sua carriera teatrale, che ha dato vita al volume «Il Teatro di Lyda Borel- li», a cura di Maria Ida Biggi e Marianna Zannoni (Fratelli Alinari). Il tutto si è potuto realizzare grazie al contributo degli eredi, nipoti e in particolar­e Domizia Alliata, che ha tirato fuori dal seminterra­to della casa di famiglia romana degli scatoloni che contenevan­o carteggi, scatti e materiali che quella nonna speciale aveva nascosto.

Un puzzle che ricostruis­ce la sua carriera folgorante seppur breve. Figlia d’arte, Lyda inizia la carriera debuttando nel 1901, a 14 anni, nella Drammatica Compagnia Italiana di Francesco Pasta e Virginia Reiter. Nel 1903, entra nella compagnia Talli-Gramatica-Calabresi, e nel 1905 recita al fianco di Eleonora Duse interpreta­ndo il personaggi­o di Fernanda nel dramma omonimo di Victorien Sardou. Nel 1909 firma un contratto triennale con la compagnia di Ruggero Ruggeri. Nel 1912 diviene capocomica della compagnia Gandusio-Borelli-Piperno, diretta da Flavio Andò, mentre nel 1915 entra a far parte della nuova compagnia diretta da Ermete Novelli. Malgrado questa carrierona teatrale, la Borelli è ricordata come simbolo del cinema senza parole: 13 film in meno di cinque anni, da Ma l’amor mio non muore di Caserini, passando per Madame Tallien di Guazzoni fino a Rapsodia Satanica, di Nino Oxilia. Quest’ultimo aprirà una rassegna di film borelliani (4, 19, 21 e 22 settembre; 8 novembre) negli spazi del Teatro La Fenice, Videoteca Pasinetti e Fondazione Cini. Se nella mostra la vediamo splendida negli scatti di grandi fotografi come ad esempio Mario Nunes Vais, quello che emerge dalla rassegna è la donna Lyda: i suoi rapporti con gli intellettu­ali nei carteggi con Gozzano, Giacosa, D’Annunzio; la sua curiosità e pure la sua fragilità: «Soffrì molto - marca il nipote Giovanni Alliata - per la deportazio­ne a Dachau del marito, per la morte del figlio e per la sua lunga malattia finale. Amava i fiori, amava le rose».

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Saperi Il presidente Giovanni Bazoli con Maria Ida Biggi, curatrice della mostra

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