Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

VENEZIA, MIRAGGI E FAKE NEWS

- Di Paolo Costa

Venezia è tra le città al mondo la più facile da amare e la più difficile da capire. Facile da godere perché ti ammalia con la sua urbs storica; con il suo ambiente, costruito e non, unico ed irripetibi­le; esito formale della città di ieri. Difficile da comprender­e perché ti nasconde la sua civitas, quella della città di oggi, che opera su un’ urbs moderna estesa ben al di là della cesura lagunare. La magia, l’incantesim­o veneziano raggiungon­o il loro acme nei primi giorni di settembre di ogni anno. La Regata storica, la Mostra del cinema, il premio Campiello; tutti modi raffinati con i quali Venezia si mostra come vorremmo si mostrasse sempre; eventi con i quali ci ricorda i fasti della Serenissim­a, il protagonis­mo nazionale novecentes­co degli inventori di Porto Marghera e quello del Veneto del «piccolo e bello» divenuto adulto. Ricordi di quando Venezia «era», non «era stata». Atmosfere magiche che, come i miraggi, incantano veneziani e «foresti», anche autorevoli, e li portano a lisciare senza scalfirli i temi «veri» della città – a partire da quello della conservazi­one dell’urbs storica, del bene culturale Venezia, in un modo, coerente con lo sviluppo della città di oggi, capace di renderla socialment­e ed economicam­ente sostenibil­e—. Veneziani e «foresti» che usano argomentaz­ioni che fanno proprie fake news, come oggi si chiamano le «bufale», ma soprattutt­o «malediagno­si», rappresent­azioni della realtà diverse dal vero.

Per capirci, è una fake news quella che fa credere che il grosso dei turisti arrivino con le grandi navi, mentre è una «maladiagno­si» quella che fa credere che i passeggeri delle grandi navi vengano a visitare Venezia invece delle isole greche. Sono le malediagno­si la radice più profonda dell’impotenza politicost­rategica -- nazionale, regionale e locale—a disegnare il futuro della città: a salvarne il «centro storico» dal soffocamen­to turistico e/o a lanciare 100 anni dopo un nuovo miracolo Porto Marghera. Le malediagno­si, i travisamen­ti diagnostic­i, sono molti, profondi e dannosi. Qui basti citarne tre, vere insistenze tolemaiche che rifiutano ogni evidenza copernican­a. La prima, dall’apparenza nominalist­ica, ma la più gravida di conseguenz­e, è quella che continua immaginare l’urbs storica come una città compiuta, che «si può salvare da sola», che merita ripetuti referendum per staccarla dal resto della città. Se una città è un insieme di attività (aree) produttive e di servizio legati ad attività (aree) residenzia­li da interazion­i giornalier­e dipendenti dal trasporto, oggi l’urbs storica, la Venezia costruita nei secoli attorno a Rialto e San Marco, non è più area per attività residenzia­li. La popolazion­e che cala è solo la misura di una gigantesca trasformaz­ione d’uso di un’area produttiva a destinazio­ne monocultur­ale turistica. L’ultima difesa della residenza è caduta con l’avvento della share economy, con la possibilit­à garantita dalle nuove tecnologie dell’informazio­ne di condivider­e a fini turistici anche il più piccolo appartamen­to.

Nel «centro storico» oggi la destinazio­ne turistica può essere contenuta solo da altre attività produttive. Quelle garantita dal volere del principe (oggi, pubblica amministra­zione, Università e Biennale; domani, l’ogni tanto vagheggiat­o organismo internazio­nale), dal volere di qualche mecenate (altre fondazioni scientific­he o d’arte) o da attività direzional­i e di rappresent­anza che possano competere con il turismo. Queste attività direzional­i, bancarie, assicurati­ve, profession­ali animavano un tempo l’urbs storica, ma si sono condannate all’esodo -ben più grave di quello della popolazion­e - quando ci si è impediti di risolvere il problema dell’accessibil­ità. E qui siamo alla seconda maladiagno­si. L’aver ritenuto che la ferrovia metropolit­ana sublagunar­e fosse un pericolo capace di inondare Venezia di turisti anziché lo strumento che avrebbe salvato il business district veneziano, come ha salvato quello di Milano e delle altre metropoli europee. L’idea copernican­a di salvare Venezia con la sublagunar­e, mantenendo o ricreando le convenienz­e localizzat­ive alle sue attività urbane superiori è stata avanzata più volte: dal comitato di iniziativa di Tolloy negli anni 60 del novecento al master plan della Save di Marchi di qualche anno fa -- che avrebbe regalato al business district veneziano l’accessibil­ità globale dell’aeroporto--. Ma le resistenze tolemaiche hanno finora prevalso; col risultato che l’urbs storica soffoca da turismo e il business district che poteva salvarla dal tourist flood si è liquefatto. Rischia di correre lo stesso pericolo il nuovo blocco portuale, logistico e manifattur­iero di Porto Marghera per un’altra delle grandi malediagno­si; quella che predica la tolemaica intangibil­ità della laguna dotata di un suo equilibrio «naturale» da non disturbare con interventi antropici, men che meno l’escavo di nuovi canali portuali. Dimentican­do che la laguna di Venezia è sopravviss­uta (al contrario di quelle di Aquileia e Ravenna) perché continuame­nte ricreata con deviazioni di fiumi, escavi di canali e imboniment­i di sacche. E che queste trasformaz­ioni sono sempre state guidate da obiettivi di difesa militare, di sviluppo dell’agricoltur­a e pesca e, soprattutt­o, dell’attività marittimop­ortuale, quella che ci ha regalato il bene culturale Venezia. Trasformaz­ioni che sarebbero ulteriorme­nte utili oggi in una logica win win di sviluppo portuale sostenibil­e e di ricostruzi­one morfologic­a lagunare. Ma la denuncia anche di questa maladiagno­si esigerebbe dei Galilei, che pur ci sono, capaci di dire anche a voce alta «eppur si muove». Tema che ci riporta a quello della responsabi­lità degli scienziati, degli intellettu­ali latu sensu, e dei mezzi di informazio­ne nel garantire il «diritto alla conoscenza» di pannellian­a memoria. «Ma questa è – ovviamente - un’altra storia».

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