Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
VENEZIA, MIRAGGI E FAKE NEWS
Venezia è tra le città al mondo la più facile da amare e la più difficile da capire. Facile da godere perché ti ammalia con la sua urbs storica; con il suo ambiente, costruito e non, unico ed irripetibile; esito formale della città di ieri. Difficile da comprendere perché ti nasconde la sua civitas, quella della città di oggi, che opera su un’ urbs moderna estesa ben al di là della cesura lagunare. La magia, l’incantesimo veneziano raggiungono il loro acme nei primi giorni di settembre di ogni anno. La Regata storica, la Mostra del cinema, il premio Campiello; tutti modi raffinati con i quali Venezia si mostra come vorremmo si mostrasse sempre; eventi con i quali ci ricorda i fasti della Serenissima, il protagonismo nazionale novecentesco degli inventori di Porto Marghera e quello del Veneto del «piccolo e bello» divenuto adulto. Ricordi di quando Venezia «era», non «era stata». Atmosfere magiche che, come i miraggi, incantano veneziani e «foresti», anche autorevoli, e li portano a lisciare senza scalfirli i temi «veri» della città – a partire da quello della conservazione dell’urbs storica, del bene culturale Venezia, in un modo, coerente con lo sviluppo della città di oggi, capace di renderla socialmente ed economicamente sostenibile—. Veneziani e «foresti» che usano argomentazioni che fanno proprie fake news, come oggi si chiamano le «bufale», ma soprattutto «malediagnosi», rappresentazioni della realtà diverse dal vero.
Per capirci, è una fake news quella che fa credere che il grosso dei turisti arrivino con le grandi navi, mentre è una «maladiagnosi» quella che fa credere che i passeggeri delle grandi navi vengano a visitare Venezia invece delle isole greche. Sono le malediagnosi la radice più profonda dell’impotenza politicostrategica -- nazionale, regionale e locale—a disegnare il futuro della città: a salvarne il «centro storico» dal soffocamento turistico e/o a lanciare 100 anni dopo un nuovo miracolo Porto Marghera. Le malediagnosi, i travisamenti diagnostici, sono molti, profondi e dannosi. Qui basti citarne tre, vere insistenze tolemaiche che rifiutano ogni evidenza copernicana. La prima, dall’apparenza nominalistica, ma la più gravida di conseguenze, è quella che continua immaginare l’urbs storica come una città compiuta, che «si può salvare da sola», che merita ripetuti referendum per staccarla dal resto della città. Se una città è un insieme di attività (aree) produttive e di servizio legati ad attività (aree) residenziali da interazioni giornaliere dipendenti dal trasporto, oggi l’urbs storica, la Venezia costruita nei secoli attorno a Rialto e San Marco, non è più area per attività residenziali. La popolazione che cala è solo la misura di una gigantesca trasformazione d’uso di un’area produttiva a destinazione monoculturale turistica. L’ultima difesa della residenza è caduta con l’avvento della share economy, con la possibilità garantita dalle nuove tecnologie dell’informazione di condividere a fini turistici anche il più piccolo appartamento.
Nel «centro storico» oggi la destinazione turistica può essere contenuta solo da altre attività produttive. Quelle garantita dal volere del principe (oggi, pubblica amministrazione, Università e Biennale; domani, l’ogni tanto vagheggiato organismo internazionale), dal volere di qualche mecenate (altre fondazioni scientifiche o d’arte) o da attività direzionali e di rappresentanza che possano competere con il turismo. Queste attività direzionali, bancarie, assicurative, professionali animavano un tempo l’urbs storica, ma si sono condannate all’esodo -ben più grave di quello della popolazione - quando ci si è impediti di risolvere il problema dell’accessibilità. E qui siamo alla seconda maladiagnosi. L’aver ritenuto che la ferrovia metropolitana sublagunare fosse un pericolo capace di inondare Venezia di turisti anziché lo strumento che avrebbe salvato il business district veneziano, come ha salvato quello di Milano e delle altre metropoli europee. L’idea copernicana di salvare Venezia con la sublagunare, mantenendo o ricreando le convenienze localizzative alle sue attività urbane superiori è stata avanzata più volte: dal comitato di iniziativa di Tolloy negli anni 60 del novecento al master plan della Save di Marchi di qualche anno fa -- che avrebbe regalato al business district veneziano l’accessibilità globale dell’aeroporto--. Ma le resistenze tolemaiche hanno finora prevalso; col risultato che l’urbs storica soffoca da turismo e il business district che poteva salvarla dal tourist flood si è liquefatto. Rischia di correre lo stesso pericolo il nuovo blocco portuale, logistico e manifatturiero di Porto Marghera per un’altra delle grandi malediagnosi; quella che predica la tolemaica intangibilità della laguna dotata di un suo equilibrio «naturale» da non disturbare con interventi antropici, men che meno l’escavo di nuovi canali portuali. Dimenticando che la laguna di Venezia è sopravvissuta (al contrario di quelle di Aquileia e Ravenna) perché continuamente ricreata con deviazioni di fiumi, escavi di canali e imbonimenti di sacche. E che queste trasformazioni sono sempre state guidate da obiettivi di difesa militare, di sviluppo dell’agricoltura e pesca e, soprattutto, dell’attività marittimoportuale, quella che ci ha regalato il bene culturale Venezia. Trasformazioni che sarebbero ulteriormente utili oggi in una logica win win di sviluppo portuale sostenibile e di ricostruzione morfologica lagunare. Ma la denuncia anche di questa maladiagnosi esigerebbe dei Galilei, che pur ci sono, capaci di dire anche a voce alta «eppur si muove». Tema che ci riporta a quello della responsabilità degli scienziati, degli intellettuali latu sensu, e dei mezzi di informazione nel garantire il «diritto alla conoscenza» di pannelliana memoria. «Ma questa è – ovviamente - un’altra storia».