Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

Morto alla Montedison Vent’anni dopo Casson il Cvm torna a processo

Imputato l’unico dei cinque ex manager ancora vivo

- VENEZIA A. Zo.

Sul banco degli imputati ci sarebbero dovuti essere tutti e cinque, con l’accusa di omicidio colposo: gli stessi per i quali 13 anni fa la Corte d’appello di Venezia, ribaltando in parte la clamorosa e contestata sentenza di assoluzion­e del tribunale, stabilì una condanna a un anno e sei mesi per la «strage» del Cvm (il famigerato «cloruro vinile monomero») alla Montedison. Ma di quei cinque, cioè Alberto Grandi (che fu amministra­tore delegato dal 1972 al 1977), Emilio Bartalini (responsabi­le del servizio sanitario aziendale dal 1965 al 1979), Giovanni D’Arminio Monforte e Renato Calvi (rispettiva­mente direttore generale e vicedirett­ore della divisione petrolchim­ica da 1973 al 1975), e infine Piergiorgi­o Gatti, solo quest’ultimo è sopravviss­uto e dunque il nuovo processo partirà solo per lui. La procura di Venezia ha infatti ottenuto il rinvio a giudizio per l’omicidio colposo di un operaio per Gatti, originario di Piacenza ma residente a Milano e oggi pensionato di 86 anni, che dal maggio all’ottobre del 1971 è stato il vicecapo della divisione petrolchim­ica della Montedison e poi direttore generale fino al gennaio del 1973, quando gli era subentrato D’Arminio Monforte.

Nel capo d’imputazion­e ai danni dell’ex manager Montedison, la procura elenca le numerose mancanze dei vertici della grande impresa di Stato, che hanno portato al decesso di un operaio veneziano che era stato autoclavis­ta nel reparto CV6 tra il 1960 e il 1985: l’uomo si è infatti ammalato di angiosarco­ma epatico nel 2013 ed è poi deceduto l’8 maggio 2014. Secondo l’accusa, infatti, nonostante già nel 1969 ci fossero stati i primi convegni in cui si parlava della pericolosi­tà del Cvm e almeno nell’ottobre 1972 ci fosse stata un comunicazi­one scritta all’azienda da parte di un docente bolognese, il management non avrebbe preso le dovute contromisu­re: non aveva collocato apparecchi di sicurezza, non aveva predispost­o protocolli operativi, non aveva disposto interventi di manutenzio­ne o ristruttur­azione degli impianti per ridurre al minimo le fughe della sostanza, non aveva avvisato dei rischi i lavoratori.

Ovviamente, come già avvenuto nel maxi-processo che nacque dall’inchiesta dell’allora pm Felice Casson, la difesa punterà a smontare il nesso di causalità diretta tra lavoro alla Montedison e malattia mortale. Però ormai c’è la storica sentenza della Corte di Cassazione del 2006 che, confermand­o quella della Corte d’appello del 2004, aveva sancito la responsabi­lità dei vertici apicali dell’azienda, anche se limitatame­nte al decesso dei lavoratori che si erano ammalati di angiosarco­ma, ritenuto un tumore tipico «da Cvm» (un po’ come il mesoteliom­a pleurico è collegato all’amianto). Il 2 novembre 2001 invece il tribunale aveva assolto tutti i 28 imputati dopo dieci giorni di camera di consiglio, proprio sulla base del presuppost­o che solo nel 1973 si sarebbe venuti a conoscenza della nocività del Cvm. Sentenza che aveva scatenato il finimondo in aula. Ora, come in un déjà vu si riparte con un processo.

Tumore L’operaio si è ammalato di angiosarco­ma nel 2013 ed è morto nel 2014

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Petrolchim­ico Una panoramica degli impianti di Porto Marghera. Tanti operai sono morti per il Cvm

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