Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
Tattiche, volti e incognite: i 3 mesi che hanno cambiato la «battaglia»
Qualcuno, in tema di autonomia, potrebbe rispolverare il vecchio concetto di «eterogenesi dei fini»: conseguenze non intenzionali di azioni intenzionali. Basterebbe osservare lo scenario degli ultimi mesi, d’altronde, per rendersene conto. Eravamo partiti con due Regioni — Veneto e Lombardia — lancia in resta a chiedere attraverso lo strumento del referendum più poteri nei confronti dello Stato centrale (e al solo sentire la parola «referendum» a Roma c’era chi digrignava), rivendicando con ciò anche una certa «specialità»; siamo finiti dentro ad un processo politico estremamente più complesso, ricco di incognite, inedito. Un mix che in sostanza ha rimesso in discussione ogni cosa. Ma quindi, a distanza di tre mesi da quel 22 ottobre 2017, il giorno del referendum che avrebbe dovuto «cambiare la storia d’Italia» (come disse allora Zaia), che fine ha fatto l’originaria battaglia per l’autonomia? Che forme e che strade ha preso? E, in definitiva, che destino le spetta?
Il cambio di rotta
All’inizio era apparso evidente che la partita autonomista si giocasse su due binari differenti. Quello di Zaia, pronto a chiedere il trasferimento di tutte e 23 le materie, nonché i 9/10 del residuo fiscale; e quello, invece, delle altre due Regioni in campo, Lombardia ed Emilia Romagna (arrivata alla trattativa bypassando il referendum), intese a individuare un numero specifico e definito di materie. Ed è accaduto questo: che il governo da un lato faceva capire che la richiesta del Veneto fosse irricevibile (no al modello altoatesino); ma dall’altro lato cambiava atteggiamento dimostrandosi realmente disponibile a mettere mano alle competenze. Un input, si dice, arrivato probabilmente dallo stesso Gentiloni, ma in ogni caso accolto e declinato in prima persona dal sottosegretario Gianclaudio Bressa, vero dominus della trattativa. Dal fronte leghista dicono che si sia trattata di un’operazione di «sminamento» elettorale. Cioè, di un modo per evitare che la questione autonomista potesse esplodere a pochi mesi dalle elezioni. E può essere (il fatto che il tema sia totalmente assente, per il momento, dal dibattito pubblico nazionale potrebbe essere una nota a favore di questa tesi); ma sta di fatto che il Veneto ha sostanzialmente accettato l’affare. E si è partiti a trattare.
La difficoltà che si è compresa subito, per altro, è stata che il processo ex art.116 della Costituzione, rappresentasse un terreno del tutto vergine. «Con la Lombardia autonoma — disse prima del referendum Bobo Maroni — vedrete cose mai viste». Bisognava però sedersi al tavolo, prima, per capire. Da Roma, dicono per esempio che ci vorrebbero almeno altri 5-6 mesi solo per concludere un lavoro di base sulle prime materie individuate. E si tenga conto che il coordinamento generale di tutta la trattativa è affidato ai 5-6 tecnici del ministero degli Affari regionali...
Il futuro
Solo Dio dunque sa cosa potrebbe accadere ora. Le incognite sono notevoli. La prima, che non servirebbe nemmeno ricordare, è quella relativa alla fine della legislatura. Come si sa, a norma di legge, l’intesa dovrà essere votata dalle Camere. Che ora non ci sono. Cosa farà il prossimo governo (se un governo ci sarà...)? E che ne sarà del lavoro fatto finora? La pre-intesa siglata ha infatti solo un vincolo politico: in linea teorica potrebbe essere anche cancellato tutto (alla faccia dei 2,3 milioni di veneti che sono andati al voto), ma la questione è più complessa. Se vincesse il centrodestra, per esempio, quale linea prevarrebbe? Quella di Zaia e Maroni che - affermano in casa Lega - scriveranno il capitolo del programma di coalizione sull’autonomia oppure quella di Brunetta che ha già fatto sapere che Forza Italia intende affrontare la questione attraverso una riforma costituzionale complessiva che coinvolga tutte le Regioni (alla faccia qui della specialità del Veneto)? E se per caso fosse proprio Maroni a fare il premier, come si comporterebbe con il Veneto e con Zaia? Interrogativi, dubbi, incognite. Si perderebbe la speranza, se non si tornasse proprio a quel vecchio concetto: l’eterogenesi dei fini. Oggi, a distanza di tre mesi dal referendum, un vero processo di ripensamento federale del Paese è stato avviato (reclamano, come detto, anche Liguria, Piemonte, Puglia e Campania); mentre ai tavoli di Roma, forse gli unici in questo momento sottratti alla politica-politicante, si vanno a rivedere e ad aggiustare processi decisionali e modelli organizzativi che magari erano fermi da decenni. In un’ottica di vera innovazione istituzionale. E questa, come la chiamate?
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