Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
Migranti in tribunale col certificato medico Primi no dei legali
Ma palazzo di giustizia e l’Ordine difendono il protocollo: «Tutelata la salute di tutti»
VENEZIA Profughi, si allarga lo scontro sul caso Venezia. Nel mirino il protocollo firmato dal Tribunale e dall’Ordine degli avvocati secondo cui, in sede di esame dei ricorsi per lo status, i legali che assistono i migranti sono invitati a presentare il loro certificato medico. Ieri, alle udienze, primi avvocati disobbedienti, che hanno messo a verbale il loro no. In una nota congiunta la presidente del Tribunale e l’Ordine veneziano replicano: «Nessuna discriminazione, con questo protocollo tutelata la salute di tutti».
VENEZIA «Preliminarmente, il sottoscritto difensore fa presente che non intende aderire al protocollo sottoscritto…». C’è chi gioca d’anticipo. Ieri mattina l’avvocato trevigiano Martina Pinciroli, di fronte al giudice del tribunale di Venezia ha fatto mettere a verbale che fin d’ora si chiama fuori dalle nuove regole sui ricorsi presentati dai profughi per ottenere il permesso umanitario. E lo stesso si preparano a fare altri suoi colleghi che si occupano di migranti. Una sorta di disobbedienza civile, spiegano.
«È scandaloso: il certificato medico non lo consegnerò mai. Se il giudice vuole sapere lo stato di salute del mio cliente, che nomini un perito!». Pinciroli si occupa da anni di difendere i profughi nelle loro battaglie legali per ottenere il diritto a rimanere in Italia. «E non ho mai avuto paura d’essere contagiata da uno di loro…», assicura.
Di fronte al giudice, oltre a lei e al suo cliente – un giovane africano che continua a ripetere «io non sono malato» – c’è anche Kaliou, un ivoriano sbarcato in Italia nel 2011. Dopo aver ottenuto il permesso di restare in Italia, oggi lavora come interprete. «La trovo una precauzione inutile – assicura – perché le condizioni di salute dei migranti vengono tenute sotto controllo costantemente nei centri di accoglienza. Se uno di loro si ammala di Tbc viene portato in ospedale, curato. E di certo non se ne va in giro a contagiare gli altri ospiti…».
Anche Amara sembra perplesso. È un ragazzone di 29 anni, costretto a fuggire dalla Guinea per le sue idee politiche. Nel nostro Paese vuole rimanere per sempre, e magari trovare lavoro come mediatore culturale. «Non mi pare normale che chiedano il certificato medico solo a noi, e non agli italiani», spiega in francese. «Ad ogni modo, al mio arrivo in Sicilia mi hanno subito visitato. Poi, nel centro di accoglienza mi hanno fatto pure i vaccini…».
Non tutti la vedono allo stesso modo. Fuori dall’aula, attende il suo turno Mathew, 33 anni, arrivato dalla Libia nel 2015 su un barcone con altri 120 disperati. «Ricordo che tra loro c’era qualche donna incinta ma nessun malato». Eppure si dice favorevole a presentare un certificato medico: «È ok, mi pare una buona idea. Neppure a me piace pensare che qualcuno di quelli che se ne stanno qui intorno, in tribunale, mi trasmetta le sue malattie…». Lo ascolta il suo avvocato, Marta Monticello, che scuote la tesa: «È discriminante chiedere un attestato di buona salute soltanto ai profughi».
In realtà, come quasi tutto ciò che riguarda il sistema dell’accoglienza, anche in questo caso è difficile tracciare una riga netta tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. La situazione al tribunale di Venezia (unico referente per tutti i ricorsi dei migranti ospiti in Veneto) è complessa e comporta un carico di lavoro mastodontico per i magistrati. In queste aule, ogni settimana si tengono circa 150 udienze per discutere del diritto o meno all’asilo. È una specie di fabbrica delle sentenze, con un viavai continuo di stranieri che a volte si presentano di fronte al giudice in condizioni, per così dire, precarie. «Ci sono giorni in cui la puzza è insopportabile, sembra sia passato il circo», taglia corto una delle guardie giurate che sorvegliano l’ingresso.
«Qui il razzismo non c’entra, le assicuro…», confida un Got, che è un giudice onorario pagato «a gettone». In questo caso, a parlare è un’avvocatessa che svolge la funzione di giudicante e che ha appena finito di discutere il ricorso di un richiedente asilo. Per prima cosa, spalanca la finestra dell’ufficio. «Cambio l’aria, lo faccio sempre da quando una collega si è trovata di fronte un malato di Tbc. E non è stata l’unica. Ci sono giudici che hanno avuto a che fare con profughi affetti da epatite o da altre patologie. Francamente non ritengo giusto venire al lavoro con il rischio di rimetterci la salute: sono una libera professionista, non ho neppure l’indennità di malattia…». Per lei, il fantomatico «punto 7» del protocollo sui migranti è sacrosanto. «Arrivano da Paesi poveri, dove il controllo sanitario è scarso o addirittura assente. È doveroso proteggere, anche dal punto di vista sanitario, chiunque entri in questo tribunale».