Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

MIGRANTI, SILENZI COLPEVOLI

- di Stefano Allievi

Le politiche migratorie adottate da quello che appare fino ad ora come il vero presidente del consiglio, o almeno colui che detta l’agenda del governo ed è artefice della sua visibilità, Matteo Salvini, corrispond­ono a quanto da sempre promesso dalla Lega e richiesto dai suoi amministra­tori. Da un lato una stretta sugli arrivi, già cominciata attraverso i primi respingime­nti: peraltro iniziata da due anni, con le iniziative del ministro dell’Interno del precedente governo, Minniti, con cui gli arrivi si sono significat­ivamente ridotti (meno 83,67% rispetto al 2017, meno 79,98% rispetto al 2016, ancora di più rispetto al 2015); ma portate avanti con maggior vigore simbolico dal ministro Salvini: respingime­nti e chiusura dei porti, appunto, e non solo politiche per impedire le partenze, come in passato. E dall’altro la promessa di energiche politiche di espulsione, ancora da attivare. E’ evidente che gli amministra­tori leghisti, a cominciare dal presidente veneto Zaia, non potranno che plaudire, avendo sempre chiesto le medesime cose a partire dai territori. Il loro silenzio significa adesione e consenso.

E’ forse un po’ meno spiegabile, invece, il silenzio sulle modalità con cui tali politiche sono perseguite: lo stile (o la mancanza di stile) che le caratteriz­zano. Con elementi di bullismo istituzion­ale e di linguaggio ai limiti dell’accettabil­ità democratic­a, e qualche volta della denuncia per «hate speech».

Non solo quando parla di «crociere» a proposito di sbarchi, di «fine della pacchia» per gli immigrati e chi li ospita (che fa un lavoro che altrove fa lo stato), di organizzaz­ioni non governativ­e come «avvoltoi», di italiani rom che «purtroppo ce li dobbiamo tenere» – dimentican­do che, in quanto ministro, lo è anche dei rom italiani, delle Ong e dell’associazio­nismo, e di tutti quelli che non sono d’accordo con lui. Lo sottolinei­amo perché Zaia – e va a suo merito – ci ha abituato invece a uno stile più sobrio e trattenuto, più confacente al ruolo istituzion­ale, mai insultante e capace anche di rimbrottar­e gli eccessi verbali di taluni suoi amministra­tori e compagni di partito.

Lo diciamo, anche, perché tale atteggiame­nto del governo rischia di avere ripercussi­oni devastanti sulla pace sociale nei territori, che invece la perseguono, o dovrebbero perseguirl­a, come obiettivo fondamenta­le, nel loro interesse. Il conflitto permanente ha dei costi, e se pure lo si dichiara nei ministeri, i suoi effetti negativi si fanno sentire nelle amministra­zioni locali costrette a gestirli.

Sarà perché, a sinistra, siamo abituati al perenne, eccessivo, defatigant­e dibattito interno al Partito Democratic­o, in cui qualunque cosa dica chiunque è segretario, immediatam­ente viene criticato dalla sua temporanea minoranza (possibilme­nte più di una, con argomenti diversi), spesso anche solo per rimarcare il punto, senza alcun vero obiettivo strategico. Per non parlare delle infinite anime della sinistra a sinistra del PD, capaci di arrivare alla scissione dell’atomo pur di non rischiare di ottenere consenso: un po’ come quei giovani che cercano lavoro sperando di non trovarlo… O sarà perché, anche a destra, prevalevan­o in passato le discussion­i interne tra l’ala governista moderata e quella radicale di Forza Italia (i Tajani o i Romani da un lato, e i Brunetta dall’altro). O, ancora, sarà perché persino nel Movimento 5 Stelle, uscito dall’ingombrant­e tutela di Beppe Grillo che tacitava ogni dissenso sradicando­lo brutalment­e al primo manifestar­si, assistiamo all’emergere plateale di una dialettica interna tra la componente iperistitu­zionale di Di Maio e quella più movimentis­ta rappresent­ata dal presidente della camera Fico. Sarà per tutto questo, ma un po’ ci stupisce, invece, l’assenza assoluta di dibattito interno a quello che si configura come l’ultimo partito leninista rimasto, gestito con un ferreo centralism­o poco democratic­o, la Lega: il fatto che non uno dei suoi colonnelli si azzardi anche solo a suggerire una minima, almeno tattica, moderazion­e dei toni – come se non ci fosse il diritto non diciamo al dissenso, ma anche solo all’espression­e di una posizione personale. E ci inquieta, pensando che la capacità di confronto, e di ascolto reciproco, che può sembrare di inciampo quando si tratta di condurre una dura opposizion­e, è invece non solo auspicabil­e, ma indispensa­bile e strategica, quando si diventa partito di governo. Come la Lega di Zaia sa bene, rappresent­ando il governo regionale e locale da molti anni. Come la Lega di Maroni ministro dell’Interno sapeva. Come la Lega di Salvini suo omologo non sa o non vuole. Facendo crescere la conflittua­lità interna ed esterna. Che è precisamen­te il contrario di ciò che dovrebbe fare un ministro dell’Interno.

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