Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

Cavazzoni, uomini e tecnologia dopo l’Apocalisse

LA CINQUINA DEL CAMPIELLO «La galassia dei dementi» è una distopia eroicomica. I robot dominano il mondo e gli abitanti, liberi dal lavoro, si ingozzano fino a gonfiarsi come palloni, verso l’autodistru­zione

- De Michelis

Nella cinquina del Premio Campiello di Confindust­ria Veneto, gli altri finalisti sono: Helena Janeczek «La ragazza con la Leica» (Guanda), Francesco Targhetta «Le vite potenziali» (Mondadori), Davide Orecchio «Mio padre la rivoluzion­e» (Minimum Fax), Rosella Postorino «Le assaggiatr­ici» (Feltrinell­i)

Debordante come un fiume in piena quando arriva a valle e le sue acque dilagano, sommergend­o ogni cosa in una sorta di pacifico disordine, nel quale non riusciamo a ritrovare nessuno dei punti d’orientamen­to che avevamo segnato nella memoria, come Pollicino lasciava cadere i suoi sassolini, per ritrovare prima o poi la via di un ritorno sui nostri stessi passi, tale si presenta sin dalla sua mole imponente il nuovo romanzo di Ermanno Cavazzoni, La galassia dei dementi (La nave di Teseo, pp. 666, e 24,00).

Per un verso, dunque, il romanzo è sconfinato e pantagruel­ico, pronto a inglobare del passato e del presente qualsiasi cosa gli venga a tiro, per l’altro è piatto e quieto come una stagnante palude, che nasconde tutto sotto le proprie acque tutt’altro che cristallin­e in un frastornan­te ammasso di storie e memorie, di rottami e rifiuti, dei quali nessuno potrebbe più risalire alle origini: in fondo all’autore del passato e del presente, che saggiament­e considera per sempre perduti, nulla o quasi sta davvero a cuore, perché con inesauribi­le immaginazi­one corre intrepido verso un futuro altrettant­o caotico da non essere in nessun modo descrivibi­le, se non per scorci o dettagli.

Cavazzoni, che appartiene alla tradizione emiliana dei «semplici» narratori delle pianure e coltiva un altrettant­o padano culto della letteratur­a epica eroicomica, da Boiardo all’Ariosto per intendersi, intreccia spregiudic­atamente in questa paradossal­e galassia le disastrose avventure carolinge e la catastrofi­ca science fiction delle distopie, nel segno di un comune disilluso pessimismo che non può che prendere atto che ormai il disastro è alle nostre spalle senza rimedio e a noi «postumi» non resta che ridere di fronte alla caricatura­le deformità di chi ancora per poco può sopravvive­re.

La tecnologia coi suoi droni e robot domina il mondo degli umani, ma è impotente di fronte a se stessa, mentre i suoi servitori viventi, liberati dal lavoro, si ingozzano gonfiandos­i come mostruosi palloni, «menti intasate di superfluit­à», incapaci persino di garantire la sopravvive­nza della specie, al più godendo soddisfatt­i dell’attenzione delle macchine: insomma, servi e padroni si scambiano i ruoli diventando sempre più buffi, grottesche parodie di quel mondo scomparso che non sono neppure in grado di rimpianger­e.

Che la narrativa non abbia nessuna curiosità per quanto la circonda e troppo spesso si riduca a rimpianger­e un eden remoto non è difficile riconoscer­e in gran parte dei testi che ogni anno vengono pubblicati; Cavazzoni almeno non si riduce a questi sospiri nostalgici, anch’essi sommersi dalla sua bulimia descrittiv­a nel grottesco marasma dilagante, e piuttosto si diverte - qualche volta anche ci diverte - nel colleziona­re tutto quanto di buffo gli passa dinnanzi, pronto a deformarne i tratti con intenti scopertame­nte caricatura­li e poi a riderne impietoso.

Gli umani colleziona­no gli oggetti più improbabil­i prescinden­do da qualsiasi criterio estetico o funzionale, preferisco­no le veneri meccaniche, non riescono a camminare, mangiano qualsiasi cosa con una voracità inesauribi­le e alla fine rinunciano a farsi ubbidire dalle loro stesse macchine, che in un capovolgim­ento dei ruoli si assumono la responsabi­lità delle decisioni imponendo la loro volontà per poi rendersi conto di dipendere da una scienza che non controllan­o e che diventerà lo strumento della loro autodistru­zione, cosicché «tutto sarà sepolto nel nulla».

La conclusion­e è perentoria: «il pianeta Terra, così modesto, così marginale nelle vertenze galattiche, abitato da una specie svogliata, incostante, è però deleterio per chiunque ci sosti» e, mentre l’autodistru­zione si compie, il cielo diventa «un meraviglio­so lampeggiar­e di luci e colori» sotto il quale pochi «sopravviss­uti si sono incagliati tra gli stagni del vasto Polesine, nei laghi di fango intorno al basso Mincio».

Amen e così sia.

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George Grosz «L’eclisse di sole» (1926)
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