Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
La volontaria trevigiana che aiuta i figli ripudiati dell’Isis
Eleonora Biasi, 29 anni trevigiana, parla cinque lingue e fa la volontaria in Iraq: «Curo i bimbi reietti nati dagli stupri»
In Iraq, molte delle giovani donne che sono state rapite e violentate dagli uomini di Daesh, sono diventate madri. Una volta finita la guerra le famiglie le hanno riprese, ma quasi sempre hanno respinto i loro figli. A loro hanno dato i nomi di Cristiano Ronaldo o Leo Messi. Di questi bimbi si occupa una volontaria trevigiana, Eleonora Biasi.
Sono centinaia i ragazzini iracheni che portano il nome di Cristiano Ronaldo, in Iraq. All’inizio accadeva per necessità, oggi è diventata una moda molto diffusa. Molte delle giovani donne che sono state rapite e innumerevoli volte violentate dagli uomini di Daesh, sono diventate madri. Una volta finita la guerra le famiglie le hanno riprese, ma quasi sempre hanno respinto i loro figli. Questi piccoli innocenti sono stati così chiamati con nomi che non potessero essere messi in relazione con nessuna persona in particolare. Un fenomeno nato per necessità, oggi è diventato una moda. Eleonora Biasi, giunta fin qui da Treviso cinque anni fa come cooperante, conosce molto bene questa realtà. « Nei campi profughi l’unico passatempo è il calcio, tutti sono tifosi e non si parla d’altro. Le mamme ezide, soprattutto, danno ai bimbi il nome di Cristiano Ronaldo, o Leo Messi».
Eleonora Biasi è nata a San Polo di Piave 29 anni fa e vive in Medio Oriente da 5 anni. E’ stata in Egitto, in Giordania, in l’Iraq, dove è capo missione per « Un Ponte Per... » (Upp), la Ong umanitaria presente in Iraq a supporto degli sfollati dal 1991. Eleonora coordina il personale, circa centosessanta persone, e il suo compito di fare da supervisore ai vari progetti umanitari. Solo dieci dei componenti lo staff sono italiani, perché la politica di «UPP» è di coinvolgere, formare e affidare i progetti a persone del posto. Eleonora parla cinque lingue e qualche dialetto dell’area. Deve comunicare, farsi capire dai capi tribù ai membri delle istituzioni, e allo stesso tempo deve lavorare con le persone che hanno subito i traumi di una guerra violenta e sanguinosa che ha lasciato vivi numerosi focolai. «Sono venuta qui perché volevo dare il mio piccolo contributo per risolvere tensioni e conflitti. Fin da piccola ero attratta da questa parte del mondo, una realtà che nonostante le difficoltà è molto accogliente e umana e ben disposta ad aiutare il prossimo – racconta - Da noi, in Italia o nella provincia di Treviso, spesso sembrano discorsi banali, scontati, ma viverli sulla propria pelle è molto diverso. Si impara tantissimo sia di sé stessi che dell’umanità».
Le cose in Iraq sono migliorate nell’ottobre del 2016, quando l’Isis ha cominciato a perdere contemporaneamente su più fronti. In Siria, dalla Rojava gli uomini in nero sono stati quasi completamente scacciati e stanno ripiegando verso sud. Solo in Iraq del Nord, il Kurdistan iracheno, Isis non è riuscito a sfondare. Nel resto del Paese si sono consumati massacri e esodi di intere città e villaggi. Molto del lavoro Eleonora e lo staff di «UPP» è a fianco delle donne. A Qaraqosh, c’è una bambina che si chiama Cristina. E’ stata strappata alla sua famiglia quando aveva tre anni. «Isis l’ha venduta – racconta Eleonora tenendola in braccio – l’ha presa al mercato di Mosul una famiglia musulmana, l’hanno amata da subito, e appena finita la guerra hanno cominciato a cercare la sua famiglia d’origine. Infine grazie a un appello della madre hanno trovato i suoi genitori su youtube». Cristina non smette mai di sorridere e non lascia mai il suo I-pad. «Sapeva parlare solo arabo – spiega Eleonora - Adesso si fa capire da tutti. Rapita da islamici, salvata da musulmani e restituita alla sua famiglia cristiana. Da queste storie deve ripartire l’Iraq » . A Qaraqosh, sempre in
Iraq, paese a maggioranza cristiana, le chiese sono state tutte saccheggiate e violate. Pareti imbrattate con la vernice, decorazioni sfregiate, crocifissi distrutti, altari bruciati. Nel cortile del convento, Daesh costringeva i bambini a imparare a sparare con i kalashnikov. Basta guardare dove sono posizionati le centinaia di buchi delle pareti crivellate. I segni dei colpi sono tutti ad «altezza bambino». Il custode della chiesa spiega ad Eleonora che tutti i libri sono stati bruciati. «Ora la chiesa è sempre piena, ci viene più gente adesso che in passato. Ci vengono anche tantissimi musulmani in se- gno di vicinanza e solidarietà – racconta ancora Eleonora — Anche questa è una reazione a ciò che è successo a causa di Daesh. La gente è stanca, anche il Ramadan è stato soft, formalmente erano tutti a digiuno ma abbiamo il sospetto che siano state salvate solo le apparenze».
Ancora difficile la situazione a Mosul, dove l’odore acre di morte è costante: «C’è un solo obitorio in tutta Mosul – spiega la trevigiana - la maggior parte dei cadaveri o finisce nel Tigri o brucia da qualche parte». I cartelli che invitano alla prudenza e indicano le tipologie di pericolo sono numerosi, ma non sempre bastano. Nei sotterranei di una chiesa ci sono degli attrezzi di ferro, cavi elettrici, un palo posto verticalmente con degli anelli di cuoio. Qui si consumavano torture. Daesh qui imponeva col terrore la propria assurda legge. Ci sono ancora le scritte sui muri delle case dei «miscredenti » . In un palazzo, il più alto della città vecchia, venivano lanciati giovani con la sola « colpa» di essere omossessuali. La gente di sotto veniva radunata e costretta a guardare. Un medico di Mosul che è stato obbligato a lavorare sotto Daesh racconta: «Hanno subito preso il controllo dell’ospedale e imposto a tutti di lavorare per loro. Chi si è ribellato è stato giustiziato di fronte a noi colleghi – racconta a Eleonora - Sapevano solo dare ordini. Lo facevano in inglese. Non ho mai sentito parlare in arabo gli uomini di Daesh, solo e sempre inglese», spiega il dottore non nascondendo l’amarezza. «Hanno distrutto tutto prima di andare via. Hanno mandato tutto in pezzi». Noi ce ne andiamo, Eleonora resta. Da Treviso all’Iraq. Questa ora è casa sua.
Nei campi profughi l’unico passatempo è il calcio, tutti sono tifosi non si parla d’altro. Le mamme ezide, soprattutto, danno ai bimbi il nome di Cristiano Ronaldo o Leo Messi