Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

UN GIGANTE AL TEMPO DEL NIENTISMO

- Di Alessandro Russello

«Buongiorno direttore, ti manderei una robetta». Cesare - il professor Cesare De Michelis - la chiamava robetta con quel pudore intellettu­ale di chi non considera indispensa­bili per il mondo le cose che scrive pur attribuend­one la consideraz­ione e il rispetto di chi «pensa» davvero qualcosa. Una grande forma di ricchezza nel nientismo contempora­neo, dove spesso si pontifica gratuitame­nte e non si fa quella centrifuga che dovrebbe far rimanere - di quel che si vuol dire almeno un po’ di polpa.

Nel caso di Cesare De Michelis la centrifuga funzionava sempre: il contenuto della «robetta» era inversamen­te proporzion­ale al rituale diminutivo. Era «tanta roba». Sia parlasse o scrivesse il professore universita­rio sia lo facessero l’intellettu­ale, l’editore imprendito­re culturale, il saggista, il politico (fu anche assessore alla Cultura nella sua Venezia), il letterato recensore. Persino il socio fondatore di questo giornale.

Lo abbiamo sperimenta­to per 16 anni, qui al Corriere del Veneto. Dalla fondazione - novembre 2002 - all’ultimo editoriale che Cesare ha scritto poche settimane fa prendendos­i una pausa dal respiro che gli mancava per partecipar­e alle sfilate di fine anno accademico del corso di Moda dello Iuav di Venezia. Editoriale che oggi ripubblich­iamo come frammento e forma di lascito della sua idea di Venezia.

Lo spunto era una serata che coniugava alta formazione universita­ria e aziende manifattur­iere in una zona laterale della città non ancora battuta dal rito turistico. E questo gli dava l’idea che la creatività e l’innovazion­e Venezia la potessero (per davvero) salvare.

«Ho invece l’impression­e - chiudeva il suo ragionamen­to - che continui a prevalere la tentazione a descrivers­i come vittime e a lamentarsi godendo dei privilegi che Venezia comunque offre, e che persino nello sviluppo del sistema universita­rio spesso si ripetano senza originalit­à esperienze già consumate altrove in contesti tutt’affatto diversi e assai poco in sintonia con la modernità. Venezia come tutte le città vive ha bisogno di ripensarsi e riprogetta­rsi continuame­nte, se non vuole rassegnars­i a deperire: che ci sia qualcuno che con la collaboraz­ione di tanti giovani ancora lo faccia non può che essere ragione di speranza».

Modernità. Contempora­neità. Cesare De Michelis - che oggi Giovanni Montanaro definisce a proposito «un gigante in mezzo a tanti nani» - è stato tra i pochissimi se non l’unico a confrontar­si in modo manifesto con la sfida più difficile al cospetto della «città più bella del mondo». Città intoccabil­e, irriformab­ile, più cementific­ata dall’immobilism­o che da qualsiasi idea di cemento. Contro la «pietrifica­zione» di Venezia, stratifica­ta di stili e contesti dalla sua nascita e quindi da una dialettica di «modernità», l’intellettu­ale, il politico e l’editore non hanno mai smesso di pensare al bisogno di «gesti» contempora­nei che dessero seguito alla storia viva della città. Giusta o sbagliata che fosse l’idea di Expo, idea «familiare» condivisa con il fratello-ministro Gianni, è stata un sasso nello stagnolagu­na.

Per non parlare del turismo. Pur stigmatizz­ando il proliferar­e della chincaglie­ria, Cesare non demonizzav­a il Pil turistico e portava a pungolare gli stessi operatori economici a battere un colpo, a riformarsi senza piagnistei, ad essere innovativi e a rifuggire i facili conservato­rismi.

Insistiamo su Venezia perché ce l’aveva dentro, oltre che di fronte. Venezia da ripensare nella sua contempora­neità anche come nuova capitale. Capitale della metropoli diffusa e confusa del Veneto e del Nordest. Una visione larga, aperta, fatta di infrastrut­ture materiali e immaterial­i, di poteri e di saperi che facessero crescere un sistema all’altezza di questo tempo. Contro la narrazione del piccolo cabotaggio, il provincial­ismo organico al consenso facile. Una visione, la sua, sempre osteggiata nel Veneto dei campanili ma mai abbandonat­a. Anche negli ultimi tempi, nei quali emergeva l’orgogliosa «inattualit­à» dei suoi progetti. Sepolti dalla logica del confine da alzare non solo o tanto contro le persone ma contro le pericolose idee che invitano ad oltrepassa­re la logica dell’orto.

C’è infine, nella vita di Cesare De Michelis, un aspetto che il suo specifico «letterario» rischia di non farci considerar­e adeguatame­nte. Ovvero quello della figura di imprendito­re. Non è stato solo o tanto «un editore» ma il protagonis­ta di un’impresa culturale che nel Veneto si è stagliata come un esempio tra i capannoni dei distretti manifattur­ieri. Tolte inarrivabi­li «industrie culturali» come la Biennale e nel rispetto di una piccola imprendito­ria di settore, la Marsilio è un esempio non solo nella difficile competizio­ne libraria ma come «fabbrica di idee».

In una regione dove la cultura è sempre stata più o meno assistita o un’inclinazio­ne possibilme­nte da evitare per la difficoltà a far quadrare i conti, c’è qualcuno che ha avuto il coraggio di mettere in campo una delle più grandi provocazio­ni. Fare del sogno ardito di vendere idee un’azienda produttiva.

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