Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
UN GIGANTE AL TEMPO DEL NIENTISMO
«Buongiorno direttore, ti manderei una robetta». Cesare - il professor Cesare De Michelis - la chiamava robetta con quel pudore intellettuale di chi non considera indispensabili per il mondo le cose che scrive pur attribuendone la considerazione e il rispetto di chi «pensa» davvero qualcosa. Una grande forma di ricchezza nel nientismo contemporaneo, dove spesso si pontifica gratuitamente e non si fa quella centrifuga che dovrebbe far rimanere - di quel che si vuol dire almeno un po’ di polpa.
Nel caso di Cesare De Michelis la centrifuga funzionava sempre: il contenuto della «robetta» era inversamente proporzionale al rituale diminutivo. Era «tanta roba». Sia parlasse o scrivesse il professore universitario sia lo facessero l’intellettuale, l’editore imprenditore culturale, il saggista, il politico (fu anche assessore alla Cultura nella sua Venezia), il letterato recensore. Persino il socio fondatore di questo giornale.
Lo abbiamo sperimentato per 16 anni, qui al Corriere del Veneto. Dalla fondazione - novembre 2002 - all’ultimo editoriale che Cesare ha scritto poche settimane fa prendendosi una pausa dal respiro che gli mancava per partecipare alle sfilate di fine anno accademico del corso di Moda dello Iuav di Venezia. Editoriale che oggi ripubblichiamo come frammento e forma di lascito della sua idea di Venezia.
Lo spunto era una serata che coniugava alta formazione universitaria e aziende manifatturiere in una zona laterale della città non ancora battuta dal rito turistico. E questo gli dava l’idea che la creatività e l’innovazione Venezia la potessero (per davvero) salvare.
«Ho invece l’impressione - chiudeva il suo ragionamento - che continui a prevalere la tentazione a descriversi come vittime e a lamentarsi godendo dei privilegi che Venezia comunque offre, e che persino nello sviluppo del sistema universitario spesso si ripetano senza originalità esperienze già consumate altrove in contesti tutt’affatto diversi e assai poco in sintonia con la modernità. Venezia come tutte le città vive ha bisogno di ripensarsi e riprogettarsi continuamente, se non vuole rassegnarsi a deperire: che ci sia qualcuno che con la collaborazione di tanti giovani ancora lo faccia non può che essere ragione di speranza».
Modernità. Contemporaneità. Cesare De Michelis - che oggi Giovanni Montanaro definisce a proposito «un gigante in mezzo a tanti nani» - è stato tra i pochissimi se non l’unico a confrontarsi in modo manifesto con la sfida più difficile al cospetto della «città più bella del mondo». Città intoccabile, irriformabile, più cementificata dall’immobilismo che da qualsiasi idea di cemento. Contro la «pietrificazione» di Venezia, stratificata di stili e contesti dalla sua nascita e quindi da una dialettica di «modernità», l’intellettuale, il politico e l’editore non hanno mai smesso di pensare al bisogno di «gesti» contemporanei che dessero seguito alla storia viva della città. Giusta o sbagliata che fosse l’idea di Expo, idea «familiare» condivisa con il fratello-ministro Gianni, è stata un sasso nello stagnolaguna.
Per non parlare del turismo. Pur stigmatizzando il proliferare della chincaglieria, Cesare non demonizzava il Pil turistico e portava a pungolare gli stessi operatori economici a battere un colpo, a riformarsi senza piagnistei, ad essere innovativi e a rifuggire i facili conservatorismi.
Insistiamo su Venezia perché ce l’aveva dentro, oltre che di fronte. Venezia da ripensare nella sua contemporaneità anche come nuova capitale. Capitale della metropoli diffusa e confusa del Veneto e del Nordest. Una visione larga, aperta, fatta di infrastrutture materiali e immateriali, di poteri e di saperi che facessero crescere un sistema all’altezza di questo tempo. Contro la narrazione del piccolo cabotaggio, il provincialismo organico al consenso facile. Una visione, la sua, sempre osteggiata nel Veneto dei campanili ma mai abbandonata. Anche negli ultimi tempi, nei quali emergeva l’orgogliosa «inattualità» dei suoi progetti. Sepolti dalla logica del confine da alzare non solo o tanto contro le persone ma contro le pericolose idee che invitano ad oltrepassare la logica dell’orto.
C’è infine, nella vita di Cesare De Michelis, un aspetto che il suo specifico «letterario» rischia di non farci considerare adeguatamente. Ovvero quello della figura di imprenditore. Non è stato solo o tanto «un editore» ma il protagonista di un’impresa culturale che nel Veneto si è stagliata come un esempio tra i capannoni dei distretti manifatturieri. Tolte inarrivabili «industrie culturali» come la Biennale e nel rispetto di una piccola imprenditoria di settore, la Marsilio è un esempio non solo nella difficile competizione libraria ma come «fabbrica di idee».
In una regione dove la cultura è sempre stata più o meno assistita o un’inclinazione possibilmente da evitare per la difficoltà a far quadrare i conti, c’è qualcuno che ha avuto il coraggio di mettere in campo una delle più grandi provocazioni. Fare del sogno ardito di vendere idee un’azienda produttiva.