Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
LA TERRA CHE NON FA «RUMORE»
Come in altre occasioni, le disgrazie meteorologiche e idrogeologiche capitate al Veneto ci hanno messo tre giorni ad arrivare all’attenzione della stampa nazionale col dovuto rilievo. La sensazione di una certa marginalità – questione di pesi e misure differenziate – fa masticare amaro, ancora una volta. Anche nel dolore, sembra di contare meno: le barche di Rapallo e la strada di Portofino hanno colpito l’immaginazione nazionale prima e più delle foreste devastate, delle strade mangiate dall’erosione o invase dalle frane, delle intere vallate isolate, delle decine di migliaia di persone senza luce e riscaldamento, della stessa eccezionale acqua alta di Venezia (tanto lì ci sono abituati, si sarà pensato…).
Se questo è vero, se non si tratta di vittimismo (e non lo crediamo), è doveroso chiederselo: perché? Non pretendiamo di avere risposte: si rischia di cadere nello stereotipo, o in impressionismi senza vero fondamento e con pochi dati a supporto. Ci limitiamo ad articolare più estesamente le domande: in modo che possano, forse, aiutarci a trovare risposte che ci permettano di non dovercele porre più, queste domande. Un’idea con cui molti veneti si identificherebbero è che qui la virtù più diffusa è quella del rimboccarsi le maniche (la religione del fare), e quando si è occupati a lavorare, non si ha tempo per vendere meglio la propria immagine. Può essere e probabilmente è una qualità, e in ogni caso è considerata tale: salvo il fatto che nella civiltà dell’immagine rischia di diventare un difetto.
Meglio la sostanza che la forma è un valore, e il fumo senza l’arrosto alla lunga non ha futuro: ma oggi più di ieri la forma è il contenuto, e l’arrosto deve saper raggiungere acquirenti sempre più lontani dal suo profumo. C’è un’altra immagine che ai veneti piace molto: è l’idea di raccontarsi che qui si sa fare da soli, senza bisogno degli altri. Ma anche non saperlo o non volerlo chiedere, l’aiuto altrui, nel mondo della connessione globale, della sharing economy e della sharing society, è più un limite, un retaggio di cocciuto orgoglio contadino e artigiano, che un vantaggio competitivo. Specularmente, da fuori, molti probabilmente pensano che tanto i veneti sono ricchi, e possono appunto fare da soli, senza bisogno di essere compatiti (e nemmeno visti, nel loro dolore). Ma se è così: perché in un’epoca che ha sdoganato la ricchezza come valore e fascino, siamo invece considerati ricchi e antipatici, e quindi poco presi in considerazione? Perché altri, con altrettanta ricchezza, sono più seduttivi? Forse ci sarà anche un problema legato al numero di veneti a Roma, nel sistema dei media. O magari manca una strategia di comunicazione complessiva, anche istituzionale, capace di far pesare il Veneto per come merita. Ma forse c’è altro, se il Veneto, motore economico nazionale, resta ancora un po’ periferia dell’Italia. Pur capace di grande solidarietà non solo interna (pensiamo all’enorme ricchezza del suo volontariato, e alla stessa protezione civile) non viene percepito all’esterno, e dunque non viene ricambiato, come tale. O comunque i messaggi lanciati non vengono capiti come si vorrebbe. In politica, vale per la legittima richiesta di autonomia, che qualcuno da fuori percepisce come egoismo dei ricchi, ma che condividiamo con altri, e significa altro: semmai, come si diceva, voler fare da soli (e poi, molti autonomisti, nel mondo, godono di enorme simpatia). Dunque c’è altro, più profondamente culturale: difficile da definire, se non provando a ripensare a quando il Veneto fa notizia nazionale. E’ come se mancasse una narrazione nazionale positiva: che il Veneto produce, ma fuori dal Veneto non si ascolta. E che ci possa rendere – come si dice in linguaggio giornalistico – più notiziabili.