Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

SE IL SAPERE NON È PIÙ UN VALORE

- Di Stefano Allievi

L’impoverime­nto del capitale umano – in un’epoca in cui il suo valore è sempre più alto e il suo effetto moltiplica­tore decisivo – è una notizia che dovrebbe inquietarc­i.

Tutti, dalle famiglie agli stati con maggiore consapevol­ezza, tendono a spendere di più per formarlo: ma se non è abbastanza, se non ha occasione di esercitars­i, e ancora di più se lo perdiamo, si tratta non solo di uno spreco, ma di un disinvesti­mento dal futuro. I dati della Fondazione Nordest sul numero di laureati ci dicono precisamen­te questo, e sono la premessa di una catastrofe annunciata, di cui non pare ci sia sufficient­e consapevol­ezza.

La percentual­e di laureati sull’occupazion­e è molto bassa: il 17,1% in Lombardia, il 16,8 in Emilia, il 14,4 in Friuli, il 14,1 in Trentino e solo il 13,7 in Veneto – con un confronto impietoso rispetto ai paesi nostri concorrent­i (la Francia ha 10 punti in più rispetto al Veneto, la Germania 7). Il differenzi­ale, peraltro, inquieta ancora di più nelle posizioni di vertice: dove troviamo percentual­i di laureati tra dirigenti e manager, oltre che tra gli imprendito­ri, notevolmen­te più basse che altrove.

Ma mentre Emilia Romagna e altre regioni del nord attraggono se non altro laureati da altre regioni, il Veneto riesce addirittur­a a perderne, pur avendo una percentual­e di laureati inferiore alla media nazionale.

C’è poi, naturalmen­te, il tema del confronto con gli altri paesi europei: che vede l’Italia fanalino di coda, e certamente non in linea con il suo essere la seconda manifattur­a europea dopo la Germania – con una percentual­e di laureati che è di dodici punti inferiore a quella dei paesi dell’area euro, e inferiore di un terzo o più rispetto ai nostri diretti competitor. In compenso siamo ai vertici europei nel numero di espatriati in possesso di titolo di studio universita­rio, che cercano fortuna altrove: con la magra consolazio­ne di trovare italiani ovunque, all’estero, si faccia alta formazione e ricerca – dottorati, dipartimen­ti universita­ri, laboratori e centri studi (segno che la loro formazione è buona: sono le occasioni di esercitarl­a che mancano. E, aggiungo, occasioni degne, con livelli salariali adeguati e forme di precariato con salari di sussistenz­a meno diffuse). Perché accade? Molte ragioni sono note. Tra le principali, il drammatico de-finanziame­nto dell’università e della ricerca (che comincia peraltro già con la scuola) – investiamo la metà o giù di lì, rispetto a molti paesi comparabil­i al nostro. Un’economia non sufficient­emente presente nei settori innovativi che presuppong­ono un alto investimen­to in conoscenze. La separazion­e stessa di formazione e ricerca: ovunque si tende a collegarle meglio, creando strutture di collegamen­to tra università e imprese, mentre da noi viaggiano spesso su canali separati (o addirittur­a, come accaduto nella provincia di Trento, si separano persino gli assessorat­i che se ne occupano). Il differenzi­ale salariale spesso troppo basso, soprattutt­o a inizio carriera, tra laureati e non, che costituisc­e un disincenti­vo alla formazione. E altro ancora.

Ma forse c’è anche una ragione “di sistema” che non ha a che fare solo con l’economia, e con gli investimen­ti in ricerca e sviluppo. Ha a che fare con la politica e la cultura: nazionale e locale. Una cultura diffusa che non valorizza l’impegno e lo studio, e una politica che non lo pratica e quindi non lo comprende. Lo vediamo nella polemica continua contro i detentori di un qualunque sapere (gli intellettu­ali, i “professoro­ni”: che ha trovato sponde molto diverse, da Renzi fino – a livelli inarrivabi­li – all’attuale ceto politico, ma che ha radici ancora più lontane). Lo vediamo, ancora di più, nei curricula dei politici a tutti i livelli (consiglier­i regionali, parlamenta­ri, ministri), che con una linea continua drammatica­mente discendent­e raggiungon­o livelli di incompeten­za sempre più abissali: e, quel che è peggio, vantati, rivendicat­i, persino ostentati. Irridendo i laureati come inutili “secchioni” inadatti al potere e alla politica (senza neanche la dignità dei “nerd” nella cultura anglosasso­ne), mentre si cantano le virtù di presunte “università della vita”, che preludono a scelte che possono tranquilla­mente andare contro la logica di fastidiosi “numerini”, e più genericame­nte anti-scientific­he e anti-culturali. Ponendo le premesse per la promozione di un ceto politico di livello ulteriorme­nte più basso sul piano delle conoscenze e delle competenze. Con le conseguenz­e strategich­e, sul sistema paese, che possiamo immaginare.

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