Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
PROFUGHI, IL PREZZO PAGATO
Affrontare la questione immigrazione sull’onda dell’emergenza è una follia, produce danni, e ha dei costi (sociali, prima ancora che economici) enormi.
Nel periodo 2014-2016 l’emergenza c’è stata sul serio: quella degli sbarchi. Arrivi imprevisti, via mare soprattutto, di immigrati irregolari, in percentuali mai viste prima. C’era dunque, effettivamente, un fatto eccezionale da gestire. Ma è stato fatto male, senza collaborazione tra diversi livelli di responsabilità, senza fiducia tra istituzioni, e senza una vera strategia almeno di medio termine.
Il meccanismo era il seguente. Gli immigrati irregolari sbarcavano o venivano salvati nel Mediterraneo (da missioni ufficiali europee e nazionali, non dalle ONG, per un significativo periodo). Lo Stato non sapeva dove metterli, e li smistava sui territori. I territori, in particolare nel Nordest, si rifiutavano di collaborare. Ai prefetti veniva allora dato mandato di imporre una soluzione purchessia. Che veniva trovata affidando il lavoro di accoglienza (che, lo ricordiamo, di principio avrebbe dovuto fare lo Stato) a soggetti del privatosociale (quando andava bene) o a soggetti economici che lavoravano a scopo di lucro, talvolta anche con metodi discutibili (quando andava male, e accadeva spesso). Date le premesse, il risultato non poteva che essere fallimentare.
Chi ha pagato il fallimento? Tutti.
La prima fila dei servitori dello Stato, in primo luogo: prefetti, vice-prefetti, funzionari, sottoposti a una pressione qualche volta indebita dall’alto, che a loro volta rivolgevano in basso – trovando in poche ore soluzioni provvisorie che diventavano definitive, inventandosi luoghi di accoglienza impropri (pensiamo alle caserme) e quindi con politiche di integrazione (parola grossa: per lo più non c’erano) inefficaci.
Oggi diversi di loro sono indagati: qualche volta con posizioni non chiare, in altri casi per aver fatto il proprio ordinario dovere in condizioni straordinarie.
Gli operatori dell’accoglienza: se non altro perché il lavoro talvolta sporco ma assai redditizio di alcuni ha finito per riverberarsi sull’immagine di tutti, incluso di chi non aveva che un modestissimo margine e molte difficoltà perché l’integrazione, tra mille ostacoli e opposizioni, cercava di farla sul serio. I cittadini: che hanno sostenuto la non collaborazione dei loro sindaci nell’illusione che risolvesse i problemi, che invece si sono manifestati sui loro territori in termini di integrazione non avvenuta, e quindi di maggiore insicurezza.
Gli immigrati stessi: che, comparativamente, hanno ricevuto servizi (conoscenza della lingua, della cultura, formazione professionale) in maniera incomparabilmente inferiore rispetto ai loro colleghi finiti in altri paesi europei, ciò che ha reso più difficile il loro inserimento.
Il prezzo finale l’ha poi pagato la politica: o meglio chi ha promosso quella politica. Che ha finito per essere sostituito da una nuova classe politica di segno opposto, che molto ha beneficiato, in termini di supporto dell’opinione pubblica e di voti, proprio da politiche emergenziali gestite nella maniera sbagliata (quando sono arrivate quelle giuste, come gli Sprar, la rete di accoglienza degli enti locali) era probabilmente troppo tardi). Il problema è che la nuova classe politica persevera nell’errore, e continua ad affrontare la questione in maniera emergenziale, anche oggi che l’emergenza, numericamente, non c’è più: in qualche modo producendola. Con normative che non producono integrazione, o producono dis-integrazione (con lo svuotamento degli Sprar e l’allargamento delle altre forme di accoglienza, ad esempio). E anche con gli sbarchi, dalla Diciotti alla Sea Watch, si continua così. A livello europeo, per giunta. Si va avanti caso per caso. Sarebbe come se, invece di avere un sistema sanitario con le sue ordinarie routine, di fronte a ogni singolo malato, o a una stagionale pandemia influenzale, noi decidessimo caso per caso quale ospedale attivare, dove inviare le medicine, chi incaricare della cura.
Purtroppo, la morale da trarre è una triste lezione anche sul nostro paese. Non collaborativo, incapace di fare rete, rancoroso, scaricabarile, privo di pianificazione e di strategia. Non un bel quadro: purtroppo, realistico.