Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
Lo psichiatra veneto primario ad Harvard «Qui per la ricerca»
Il luminare: «Negli Usa si investe nella ricerca, qui nel calcio»
È partito 34 anni fa da Valdagno, direzione Boston negli Stati Uniti. Pensava di rimanerci due o tre anni e poi tornare ma invece – incentivato dai tanti finanziamenti alla ricerca - è ancora là. E Maurizio Fava, psichiatra di fama mondiale, da qualche giorno è stato nominato direttore del dipartimento di psichiatria del Massachusetts General Hospital, l’ospedale di medicina di Harvard.
VALDAGNO (VICENZA) È partito 34 anni fa da Valdagno, direzione Boston negli Stati Uniti. Pensava di rimanerci due o tre anni e poi tornare ma invece – incentivato dai tanti finanziamenti alla ricerca e dai riconoscimenti ottenuti - è ancora là. E Maurizio Fava, psichiatra di fama mondiale, da qualche giorno ha incassato un successo che premia una volta di più la sofferta scelta di lasciare l’Italia: il 63enne specialista vicentino è infatti stato nominato, a partire dal primo ottobre, direttore del dipartimento di psichiatria del Massachusetts General Hospital, l’ospedale di medicina dell’università di Harvard.
Dottore, lei ha alle spalle 800 articoli scientifici originali, oltre a studi che hanno portato a trattamenti contro la depressione prima sconosciuti. Quali sono le ricerche che le hanno dato più soddisfazione?
«Indubbiamente il fatto di essere stato uno dei tre principali studiosi che hanno lavorato sugli studi sul trattamento alla depressione detti “Star*D”. E poi, le opportunità che ho avuto di lavorare sullo sviluppo di farmaci per la depressione, prodotti che stimolano la produzione di neuroni, la neurogenesi. Tutto questo deriva dal fatto di essere venuto negli Usa, in Italia non avrei potuto fare tutta questa ricerca».
Perché?
«Perché in Italia mancano i finanziamenti. Non ci sono investimenti adeguati in ricerca. In Italia è molto importante il calcio: infatti, la serie A italiana richiama giocatori da tutto il mondo. Negli Usa si fa lo stesso, ma lo si fa per la ricerca. E la ricerca americana non a caso recluta i migliori talenti del globo».
Per lei quali politiche servirebbero, a livello italiano?
«Quello che all’Italia manca è una strategia di valorizzazione dei propri talenti, oltre a un programma per attirarne di esterni. Gli Usa lo fanno. Per dare un’idea di quel che abbia perso il nostro Paese, un dato di fatto: due anni fa ho organizzato una cena con i soli professori ordinari associati italiani presenti a Boston. Sono risultati essere più
"Ho organizzato una cena con i soli professori ordinari associati italiani presenti a Boston. Sono risultati essere più di un centinaio
di un centinaio. Trovare un ristorante dove ci stessero tutti è stato molto complicato».
Quali possibilità avrà, ora, dirigendo il dipartimento?
«Per me questa è un’opportunità enorme. Il Massachussets General Hospital ha un budget per la ricerca di 900 milioni di dollari l’anno, il più alto del mondo, e il dipartimento di psichiatria è il secondo più grande della struttura. Abbiamo 600 psichiatri e fra questi ci sono talenti straordinari».
Nella sua specialità, la psichiatria, qual è il livello raggiunto dalla sanità italiana?
«I modi per fare queste valutazioni sono diversi. Se assumiamo quello sull’impatto degli studi nelle citazioni, in un recente articolo della testata “Plos Biology” sui mille specialisti di psichiatria più citati al mondo elenca altri 5 nomi in Italia, oltre al mio. Nessuno è in Veneto. Facendo un confronto con il Regno Unito, troviamo che ci sono 5 specialisti inglesi già nei primi 50 nomi. L’Olanda fra i mille ne ha una ventina: ed è un Paese molto più piccolo dell’Italia».
Cosa pensa della distinzione fra finanziamento pubblico o privato, nella ricerca scientifica?
«Negli Usa esiste il privato “for profit” e il “non for profit”, la mia struttura appartiene al secondo tipo. Ed è un modello che funziona molto bene. La presenza o meno dei privati, nel finanziamento alla ricerca, non implica che l’esito sia più o meno buono. L’importante è lavorare bene: non la vedrei come una questione “pubblico contro privato”».
Lei torna ogni estate a Valdagno. Come è cambiata?
«È certamente molto diversa. Quando ero ragazzino dominava su tutto l’industria Marzotto, mentre oggi oltre alla grande azienda ci sono anche molte imprese più piccole. Circa le scuole, devo dire che l’istruzione a Valdagno a tutti i livelli ha ancora ottimi insegnanti. Che stanno continuando a far crescere futuri “leaders”: l’importante è che questi talenti, in futuro, abbiano l’opportunità di rimanere in Italia».