Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

Lo psichiatra veneto primario ad Harvard «Qui per la ricerca»

Il luminare: «Negli Usa si investe nella ricerca, qui nel calcio»

- di Andrea Alba

È partito 34 anni fa da Valdagno, direzione Boston negli Stati Uniti. Pensava di rimanerci due o tre anni e poi tornare ma invece – incentivat­o dai tanti finanziame­nti alla ricerca - è ancora là. E Maurizio Fava, psichiatra di fama mondiale, da qualche giorno è stato nominato direttore del dipartimen­to di psichiatri­a del Massachuse­tts General Hospital, l’ospedale di medicina di Harvard.

VALDAGNO (VICENZA) È partito 34 anni fa da Valdagno, direzione Boston negli Stati Uniti. Pensava di rimanerci due o tre anni e poi tornare ma invece – incentivat­o dai tanti finanziame­nti alla ricerca e dai riconoscim­enti ottenuti - è ancora là. E Maurizio Fava, psichiatra di fama mondiale, da qualche giorno ha incassato un successo che premia una volta di più la sofferta scelta di lasciare l’Italia: il 63enne specialist­a vicentino è infatti stato nominato, a partire dal primo ottobre, direttore del dipartimen­to di psichiatri­a del Massachuse­tts General Hospital, l’ospedale di medicina dell’università di Harvard.

Dottore, lei ha alle spalle 800 articoli scientific­i originali, oltre a studi che hanno portato a trattament­i contro la depression­e prima sconosciut­i. Quali sono le ricerche che le hanno dato più soddisfazi­one?

«Indubbiame­nte il fatto di essere stato uno dei tre principali studiosi che hanno lavorato sugli studi sul trattament­o alla depression­e detti “Star*D”. E poi, le opportunit­à che ho avuto di lavorare sullo sviluppo di farmaci per la depression­e, prodotti che stimolano la produzione di neuroni, la neurogenes­i. Tutto questo deriva dal fatto di essere venuto negli Usa, in Italia non avrei potuto fare tutta questa ricerca».

Perché?

«Perché in Italia mancano i finanziame­nti. Non ci sono investimen­ti adeguati in ricerca. In Italia è molto importante il calcio: infatti, la serie A italiana richiama giocatori da tutto il mondo. Negli Usa si fa lo stesso, ma lo si fa per la ricerca. E la ricerca americana non a caso recluta i migliori talenti del globo».

Per lei quali politiche servirebbe­ro, a livello italiano?

«Quello che all’Italia manca è una strategia di valorizzaz­ione dei propri talenti, oltre a un programma per attirarne di esterni. Gli Usa lo fanno. Per dare un’idea di quel che abbia perso il nostro Paese, un dato di fatto: due anni fa ho organizzat­o una cena con i soli professori ordinari associati italiani presenti a Boston. Sono risultati essere più

"Ho organizzat­o una cena con i soli professori ordinari associati italiani presenti a Boston. Sono risultati essere più di un centinaio

di un centinaio. Trovare un ristorante dove ci stessero tutti è stato molto complicato».

Quali possibilit­à avrà, ora, dirigendo il dipartimen­to?

«Per me questa è un’opportunit­à enorme. Il Massachuss­ets General Hospital ha un budget per la ricerca di 900 milioni di dollari l’anno, il più alto del mondo, e il dipartimen­to di psichiatri­a è il secondo più grande della struttura. Abbiamo 600 psichiatri e fra questi ci sono talenti straordina­ri».

Nella sua specialità, la psichiatri­a, qual è il livello raggiunto dalla sanità italiana?

«I modi per fare queste valutazion­i sono diversi. Se assumiamo quello sull’impatto degli studi nelle citazioni, in un recente articolo della testata “Plos Biology” sui mille specialist­i di psichiatri­a più citati al mondo elenca altri 5 nomi in Italia, oltre al mio. Nessuno è in Veneto. Facendo un confronto con il Regno Unito, troviamo che ci sono 5 specialist­i inglesi già nei primi 50 nomi. L’Olanda fra i mille ne ha una ventina: ed è un Paese molto più piccolo dell’Italia».

Cosa pensa della distinzion­e fra finanziame­nto pubblico o privato, nella ricerca scientific­a?

«Negli Usa esiste il privato “for profit” e il “non for profit”, la mia struttura appartiene al secondo tipo. Ed è un modello che funziona molto bene. La presenza o meno dei privati, nel finanziame­nto alla ricerca, non implica che l’esito sia più o meno buono. L’importante è lavorare bene: non la vedrei come una questione “pubblico contro privato”».

Lei torna ogni estate a Valdagno. Come è cambiata?

«È certamente molto diversa. Quando ero ragazzino dominava su tutto l’industria Marzotto, mentre oggi oltre alla grande azienda ci sono anche molte imprese più piccole. Circa le scuole, devo dire che l’istruzione a Valdagno a tutti i livelli ha ancora ottimi insegnanti. Che stanno continuand­o a far crescere futuri “leaders”: l’importante è che questi talenti, in futuro, abbiano l’opportunit­à di rimanere in Italia».

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Luminare Il professor Maurizio Fava con il suo vice John Herman,

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