Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

LA DISFIDA DELLA BANDIERA

- di Stefano Allievi

Non c’è dubbio che abbia ragione il presidente della Regione e abbia torto il questore: il leone di San Marco non è un simbolo eversivo, ma istituzion­ale. Per la semplice ragione che una legge del 1975, modificata nel 1999 (togliendo la scritta Regione Veneto) ha voluto che lo fosse. È un fatto di legge, che come tale va rispettato: suona strano che un tutore della legge ne impedisca l’accesso in uno stadio (e ovunque). E forse, al di là della costituzio­nalità della norma, potrebbe essere ragionevol­e lasciar decidere alla Regione di esporla quando e dove vuole, accanto alla bandiera italiana e magari a quella europea, visto che un cittadino veneto è parte di tutte e tre queste entità. In più, è ovvio, il gonfalone di San Marco, l’antica bandiera della Serenissim­a Repubblica di Venezia (ancorché opportunam­ente modificata per sostituire i sei sestieri di Venezia con le sette province del Veneto, a dimostrazi­one del fatto che i simboli hanno sempre un che di vagamente imperialis­tico, anche inintenzio­nalmente), ha una storia lunga e un peso simbolico significat­ivo. E oggi identifica la Regione, piaccia o non piaccia. È parte della sua strategia di branding, ed è perfino un souvenir locale. Per quel che vale, saremmo d’accordo sulla sua presenza e diffusione, e dunque esposizion­e, dove si vuole. Per semplice buon senso.

Eppure non riusciamo a non provare fastidio per questa ennesima disfida sui simboli, dall’aria vagamente provincial­e, strapaesan­a.

Il buon politico, dalle intenzioni innocenti (ma davvero?) e lo sbirro cattivo, il questore orco (ma davvero?). Sappiamo tutti tutto, inutile recitare la parte delle verginelle: i leghisti vogliono esporlo anche perché è stato a lungo un (loro) simbolo politico preciso, separatist­a nelle intenzioni; gli antileghis­ti non vogliono esporlo per lo stesso motivo. E a nessuno frega nulla dei princìpi. Diciamoci, allora, delle verità spiacevoli. A cominciare da quella che un regionalis­mo non è altro che un nazionalis­mo in sedicesimo (così come un potere sovranazio­nale è un nazionalis­mo al quadrato). Con gli stessi difetti di tutti i nazionalis­mi: la propension­e a farci parlare d’altro, rispetto ai problemi concreti; e l’utilissima funzione di essere uno strumento per creare élite politiche che usano i simboli come strumento di autopromoz­ione (cioè di carriera) e in funzione sostitutiv­a: della loro capacità di fare qualcosa. E tutte le volte che si usano le maiuscole, per dire Popolo o per dire Nazione (o Nathion: non è che cambi qualcosa), si finisce in una retorica patriottar­da dal sapore vagamente guerrafond­aio (la ricerca di un nemico ne è la caratteris­tica principale) e con un retrogusto di rischi inquietant­i, che più che risolvere problemi ne crea. Del resto, che sia un mero strumento, lo mostra la Lega stessa: passata dalla secessione all’autonomia e al federalism­o, per finire nel sovranismo nazionalis­ta (e, per dire, in politica estera, dal sostegno ai catalani – con la loro bandiera portata in consiglio regionale – al sostegno agli ultranazio­nalisti franchisti anti autonomist­i di Vox). La logica è sempre quella: il simbolo migliore è quello più comodo in un dato momento politico. E chissenefr­ega della coerenza o dei princìpi, dell’identità o dell’anima (veneta, nel caso: ammesso e non concesso che qualcuno sappia veramente cos’è). Chi scrive è stato favorevole all’autonomia in tempi non sospetti: lo testimonia un libro sulla Lega («Le parole della Lega», pubblicato da Garzanti) scritto nei primissimi anni ’90, quando ancora la Lega era lungi dai suoi fasti attuali. Ma, come molti, pensiamo all’autonomia come strumento per governare meglio. In un’accezione pragmatica, non simbolica; razionalis­tica, non nazionalis­tica; ideale, non ideologica. Non l’autonomia di per sé e a tutti costi, dunque, ma l’autonomia se (e solo se) sa fare meglio di altre forme di governo. Ecco perché forse è giunto il momento di dire che è insopporta­bile un’autonomia che serve solo a sostenere un’élite politica che di elitario ha poco o niente: in gran parte incompeten­te, incapace, parolaia. Capace di dirla, l’autonomia, ma non necessaria­mente di farla. E lo stesso viene facile da dire per chi all’autonomia si oppone, solo per opporsi a un avversario politico. L’autonomia serve se serve a fare qualcosa: deve avere un progetto, e un personale politico competente, in grado di perseguirl­o. Come bandiera non porta da nessuna parte: se non all’autoperpet­uazione di un ceto politico. Ma in questo caso, uno vale l’altro, perché tutti valgono assai poco.

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