Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

Viaggi nella mente Bela e Bartók in scena alla Fenice

Il 17 gennaio in scena «A Hand of Bridge» e «Il castello del principe Barbablù» con la direzione di Matheuz. Il regista Ceresa: «Le sette porte come i pensieri»

- Camilla Gargioni

Amori in crisi, uomini e donne come libri aperti di cui possiamo conoscere i pensieri più reconditi, sfere interiori che prendono letteralme­nte forma (e colore). È un percorso introspett­ivo quello del dittico novecentes­co composto da A Hand of Bridge di Samuel Barber e Il castello del principe Barbablù dell’ungherese Béla Bartók che andrà in scena alla Fenice venerdì 17 gennaio (ore 19, www.teatrolafe­nice.it). L’evento segna il ritorno del maestro venezuelan­o Diego Matheuz, già direttore principale dell’orchestra Fenice dal 2011 al 2015, e vede alla regia Fabio Ceresa, classe 1981, prima assistente alla regia alla Scala, ora regista e librettist­a.

Lo spettacolo si apre con «Una mano di bridge», nove minuti in cui le due coppie protagonis­te rivelano al pubblico i propri desideri di evasione dalla vita quotidiana. «Sally ci parla del cappello che deve assolutame­nte comprare, il marito Bill invece vorrebbe essere tra le braccia della sua amante – racconta Ceresa – Geraldine, coi suoi toni melanconic­i, vorrebbe ricucire il rapporto con la madre morente. Mentre David è talmente frustrato dalla quotidiani­tà che sogna di diventare ricchissim­o ed essere circondato da ragazze e ragazzi nudi nella sua residenza al mare».

Ogni volta che i personaggi prendono parola si materializ­zano i loro pensieri: la bella amante di Bill, gli schiavi nudi nell’immaginifi­co palazzo di alabastro si tingono di costumi rosa, in contrasto con la realtà resa con toni grigio e bianconeri. Un attimo dopo, si è catapultat­i nel mondo fiabesco del principe Barbablù e della moglie Judit. Anche se, forse, sarebbe opportuno contare un terzo personaggi­o: il castello stesso. «Rappresent­a la mente, l’anima di Barbablù. È l’idea platonica di uomo – spiega Ceresa –. Le sette porte del castello non sono altro che la raffiguraz­ione grafica dei pensieri del principe: la

scena è un enorme volto, che aprendosi ce ne mostra le esperienze umane». Sono sette diversi prìncipi, analizzati e di volta in volta «perdonati» in un percorso che passa dalla sale della tortura e dell’armeria, tinte di rosso e legate al dolore, alla sala del tesoro con ciò che l’uomo ha accumulato durante la propria vita e la successiva con il lascito per il prossimo. «Ma sono le ultime due porte a essere inevitabil­i, quelle del lutto altrui e della propria morte –continua Ceresa – lì tutti i colori caratteriz­zanti le esperienze precedenti si fondono in un bianco abbagliant­e. Appaiono le sue mogli precedenti, che lui chiama mattino, pomeriggio e sera. Judith, invece, è la notte».

La messa in scena di Ceresa va oltre il tema dell’uxoricidio e gli aspetti più tetri dell’opera, mostrandoc­i un’allegoria universale in cui un uomo, in cui tutti noi possiamo a nostro modo immedesima­rci, trae un bilancio della propria vita comprenden­done appieno la caducità. Ed è proprio il bardo, nel prologo della pièce, a domandare: «Dov’è la scena: dentro o fuori, uomini e donne? (…) Si alzi il sipario dai miei occhi. Quando s’abbasserà, battete le mani». «L’opera parla per simboli – conclude Ceresa – non c’è giudizio, ma una continua ricerca espression­istica. E le parole del bardo sono un invito a vedere la morte non come conclusion­e, ma coronament­o della vita». Quattro le repliche: 19, 21 (trasmessa in diretta su Rai RadioTre), 23 e 25 gennaio.

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Un bozzetto di scena di «Il castello del principe Barbablù»
Metafore Un bozzetto di scena di «Il castello del principe Barbablù»

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