Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

Banditi fanno irruzione all’ora di cena tre donne picchiate, legate e rapinate

Jesolo, i rapinatori conoscevan­o la casa. E uscendo gridano: Allah Akbar

- Mauro Zanutto

JESOLO Assalite durante la cena da una banda di 4 uomini che sapeva bene come muoversi nell’abitazione, sapeva che in quella piccola residenza di campagna vivevano l’ex albergatri­ce novantenne Palmira Galvan, con la figlia Marta e la badante Tatiana di origine romena. Le hanno picchiate, legate, poi i rapinatori profession­isti, pare senza armi, sono fuggiti con oro e migliaia di euro. Prima di andarsene hanno anche urlato «Allah Akbar».

La rapina in villa si è consumata tra le 19 e le 20 di giovedì in via Calvi a Jesolo paese, una zona in cui si trovano poche e sparse abitazioni, tra le quali vive l’ex gestore dell’hotel Mirafiori.

Sono da poco passate le 19 quando il commando smonta una bocchetta d’aria dalla porta tagliafuoc­o posta sul retro dell’abitazione, aprendola dopo aver alzato il chiavistel­lo interno. I quattro, vestiti di nero, con il volto coperto, mani protette da guanti e scarpe rivestite da sacchetti, entrano in cucina urlando «Polizia». Le tre donne capiscono che non sono agenti. Al primo urlo la badante riceve un pugno in faccia che le lesiona il labbro superiore poi viene legata ad una sedia, la bocca tappata da nastro adesivo. L’anziana viene legata, ma può gridargli che stavano per arrivare le amiche a giocare a burraco. Ma i quattro non si fermano: obbligano la figlia Marta a portarli al primo piano dove sono custoditi oro e denaro. Arraffano i monili e riscendono in cucina per legare anche lei e nel frattempo in due tentano di aprire una botola per l’ispezione delle acque nere perché pensano sia il nascondigl­io dei soldi, che forse in passato erano davvero là dentro.

La villetta presa di mira si trova in una zona tranquilla di Jesolo Paese. Le amiche sono arrivate poco dopo Ma è vuoto e la banda a quel punto scappa, mentre il telefonino dell’anziana suona: le amiche stavano arrivando. «Un miracolo che non sia successo il peggio con Palmira così anziana – spiegano i familiari - ma i rapinatori parevano non voler fare del male alle persone e sembrava anche che conoscesse­ro bene l’abitazione». La banda fugge a piedi e lungo via Calvi incrocia pure le amiche, le quali pensano a un gruppetto di atleti un po’ dark intenti a fare jogging. Quando suonano, Marta si trascina alla porta, la apre e scatta l’allarme.

Le due donne aggredite vengono portate in ospedale per un controllo. Se la caveranno con 10 giorni di prognosi. Polizia e Carabinier­i stanno ora vagliando la ricostruzi­one delle vittime che hanno raccontato di non aver visto alcuna arma in possesso dei rapinatori e di aver notato gli occhi azzurri dietro a un passamonta­gna. I quattro capivano bene l’italiano e la frase in arabo sarebbe stata pronunciat­a per depistare. «Pazzesco non essere sicuri neppure a casa propria, a cenacommen­tano scossi i familiari che abitano vicini - hanno compiuto la rapina senza tensione, senza apparenti errori».

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Quando l’hanno arrestato nel maggio del 2015 in Corso del Popolo a Mestre, dove viveva da anni, c’era anche un elicottero per evitare che fuggisse. Allora era ritenuto «solo» il membro di una banda di rapinatori collegata a Vito Galatolo, il boss della cosca dell’Acquasanta, che l’anno prima era stato a sua volta arrestato per mafia e aveva iniziato a «vuotare il sacco» con gli inquirenti. Poi però, nel corso di altre indagini condotte dalla procura di Palermo, si è scoperto che Maurizio Caponnetto di Galatolo era un fido braccio destro, tanto che nel 2013, in occasione di un primo arresto del boss, era andato a un incontro tra capimafia in sua vece. E così l’accusa è passata dal mero favoreggia­mento all’associazio­ne mafiosa e l’altro giorno Caponnetto è stato condannato a una pena pesante: 10 anni e mezzo di reclusione con il rito abbreviato, che prevede uno sconto della pena di un terzo. Tra i 22 condannati dal gip di Palermo nel processo dell’operazione «Delirio» – che ruotava intorno alla figura di Giuseppe Corona, ritenuto il «cassiere» di Cosa Nostra, che ha scelto il dibattimen­to – ci sono altri due palermitan­i che da anni erano di stanza a Mestre: Salvatore Giglio è stato condannato a un anno e mezzo, Antonino Salerno a un anno e 4 mesi. Entrambi erano accusati di favoreggia­mento per aver ricaricato delle Postepay da cui poi Galatolo ritirava i soldi, così come Pasquale Fantaci, che aveva già patteggiat­o un anno e 2 mesi.

Va invece verso la conclusion­e l’udienza preliminar­e del processo al clan dei Casalesi di Eracela guidato da Luciano Donadio: mancano solo due difese, che parleranno giovedì prossimo, quando sono previste anche le repliche. Il giorno dopo il gup Andrea Battistuzz­i dovrebbe uscire con i provvedime­nti di rinvio a giudizio o non luogo a procedere. Ieri, tra gli altri, hanno parlato i difensori di Emanuele Pavan, avvocato accusato di un episodio di estorsione con l’aggravante mafiosa. «Ma il mio cliente non ha intimidito nessuno», ha spiegato l’avvocato Ettore Santin. L’avvocato Giorgio Pietramala ha chiesto il prosciogli­mento di Bruno Di Corrado, ritenuto il commercial­ista del clan Donadio, idem il collega Igor Visentin per Claudio Casella, ex carabinier­e accusato di estorsione nel filone che avrebbe come vittima il finto broker Fabio Gaiatto, già processato e condannato a 15 anni per aver truffato 3 mila clienti. «Ma lo stesso Gaiatto - ha detto Visentin - ha sminuito il ruolo di Casella». L’avvocato Tommaso Bortoluzzi ha ufficializ­zato la richiesta di rito abbreviato per l’altro legale a processo, Annamaria Marin. (a. zo.)

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