Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
Insulti e affari in calo, così si vive a Chinatown
Mascherine ai commessi, stop ai corsi di mandarino
VENEZIA «I nostri dipendenti non sono andati in Cina negli ultimi mesi», avverte la filodiffusione dell’Umai Market di Vigonza. Ma ovunque c’è chi è preoccupato dall’idea di entrare in contatto con i cinesi. E così è la stessa comunità a mettere in quarantena chi rientra da un viaggio in patria.
VENEZIA Un’addetta scandisce il messaggio al microfono. A diffonderlo, attraverso gli scaffali carichi di qualunque cosa - dagli abiti agli oggetti per la casa, dagli accessori per i telefonini alle maschere di Carnevale - ci pensano gli altoparlanti dell’Aumai Market di Vigonza, una sorta di gigantesco mercatone Made in China: «Si avvisa la gentile clientela che il nostro negozio ha preso tutte le dovute precauzioni per rassicurarvi in merito alla diffusione del Coronavirus. In particolare, nessun membro del nostro staff e del personale si è recato in Cina negli ultimi mesi». Insomma, i commercianti cinesi ci provano a rassicurare la clientela italiana. Peccato solo che ad ascoltare quella voce ci siano ben poche persone.
Pochi chilometri più in là, nella zona industriale di Padova, una negoziante di Chieti - Ivana Martino - sta caricando in auto un sacco colmo di vestiti. «La gente ha paura», assicura. Ha appena fatto acquisti al «Cic», che sta per Centro Ingrosso Cina: 70mila metri quadrati di capannoni nei quali operano oltre cento società. «Vengo spesso a rifornirmi ma non ho mai visto il parcheggio così vuoto. Un’amica italiana che lavora in uno dei padiglioni, racconta che alcuni clienti le telefonano per sapere se, venendo qui, rischierebbero di ammalarsi». All’interno, i commercianti cinesi non possono far altro che aspettare. «Nessun calo delle vendite, nessuna preoccupazione, tutto come al solito»,taglia corto un tizio che vende portafogli griffati «G&G» e borse di pelle intrecciata che tanto ricordano quelle di un noto brand veneto. Insomma, se anche gli affari vanno male, è meglio non si sappia.
Al «Fondaco dei Tedeschi», lo store del lusso firmato dall’archistar Koolhaas e affacciato sul Canal Grande, il grosso della clientela arriva proprio dall’Oriente. Ieri pomeriggio appariva semi-deserto, ma anche qui assicurano che «finora il flusso di visitatori non ha subito grosse variazioni». Ma intanto sui social spopolano le foto dei commessi con indosso le mascherine protettive. «Le abbiamo messe a disposizione dei colleghi - spiegano dalla direzione - che le utilizzano su base volontaria. Seguiamo con grande attenzione quanto sta accadendo e l’evoluzione delle raccomandazioni delle organizzazioni sanitarie».
Resta che il Coronavirus mette paura e la paura sta degenerando in psicosi. A farne le spese non sono soltanto i commercianti cinesi ma, più in generale, chiunque abbia gli occhi a mandorla. «Una coppia di malesiani ha appena disdetto la prenotazione: in treno sono stati ricoperti di insulti da altri viaggiatori», si sfoga il gestore di un bed and breakfast di Venezia.
Capita anche questo. Lo dice «Luca» Wuang, 25 anni, da tredici in laguna, dove ora gestisce un negozio di alimentari: «L’altro giorno un ragazzo mi ha fermato per strada chiamandomi “Virus”, e poi ha spuntato per terra. Il razzismo sta dilagando». Seduto sulla poltrona del parrucchiere di via Piave a Mestre - un’altra delle
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Il commerciante orientale Un ragazzo mi ha fermato per la strada chiamandomi “Virus” e poi ha spuntato per terra Ormai il razzismo sta dilagando
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L’albergatore
Ai dipendenti ho comprato le mascherine protettive: me le hanno chieste loro per la paura di finire contagiati
Chinatown sparse per il Veneto - Wuang racconta quanto sia difficile essere un cinese ai tempi del Coronavirus. «Negli asili i nostri figli vengono bullizzati da genitori e nonni italiani che li trattano come fossero dei criminali: li accusano di mettere in pericolo gli altri bambini». Poi confida che la comunità orientale presente nel Veneziano sta facendo di tutto per proteggersi: «Ci sono albergatori cinesi che hanno messo a disposizione delle camere dove chi arriva dall’estero può alloggiare per due settimane, evitando ogni contatto fino a quando non è possibile escludere l’infezione». Insomma, anche come forma di rispetto nei confronti del Paese che li ospita, chi rientra da un viaggio in patria si mette volontariamente in quarantena. È quanto sta facendo anche la madre dello studente cinese che, a Padova, frequenta una nota scuola internazionale: la donna si è trasferita per quindici giorni in un appartamento nel quale sta vivendo completamente sola «mentre suo marito - raccontano le altre mamme - le lascia il cibo fuori dalla porta».
Nonostante gli esperti assicurino che il contagio non può avvenire attraverso contatti «occasionali» con persone infette, ciascuno fa quel che può per calmare gli animi. A Verona l’associazione Zhi Xin ha sospeso le «lezioni di cinese per cinesi», che dovevano consentire alle seconde generazioni di imparare il mandarino. «È solo una cautela», spiegano i responsabili.
Intanto, all’hotel Centurion e a Palazzo Sant’Angelo si attende la consegna delle mascherine: «Anche se pare servano a poco, alcuni dipendenti hanno paura e ci hanno chiesto di comprarle» allarga le braccia il direttore Paolo Morra. Ma il presidente dell’associazione veneziana albergatori, Vittorio Bonacini, non l’ha presa affatto bene: «Iniziativa risibile. Così non si fa altro che alimentare la paura nei turisti».