Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

Vi spiego perché abolire la prescrizio­ne va contro i diritti umani

- Di Alessandro Moscatelli*

E’ il tempo dei confronti sulla giustizia. Quella penale in particolar­e. La legittima difesa, il cosiddetto femminicid­io, lo «spazzacorr­otti» ad esempio sono alcuni dei temi che da mesi occupano giornali, tv e social media. L’ultimo terreno di confronto pubblico è quello sulla prescrizio­ne: la sua abolizione voluta dal precedente governo è oggi il terreno di una forte contrappos­izione da parte dell’avvocatura che, come da tempo non accadeva, su questo tema sta facendo sentire la propria voce, soprattutt­o per effetto delle molte iniziative messe in campo dalle camere penali italiane.

Il rapporto tra tempo e processo è di fatto l’architrave su cui si poggia (o meglio sino ad oggi si è poggiato) l’istituto della prescrizio­ne: più il tempo passa senza che lo Stato sia in grado di emettere una sentenza definitiva nei confronti di un incolpato, più aumenta la possibilit­à che il cittadino sia lasciato libero dallo Stato di tornare alla propria vita. Molti sino ad oggi sono stati i casi in cui un cittadino prima di uscire dalle aule di giustizia ha passato anni da innocente o da colpevole all’interno delle aule dei tribunali. Certo non sapremo mai cosa perde una persona quando perde «forzatamen­te» tempo ma è certamente un depauperam­ento collettivo il fatto che si sprechino risorse, anche temporali, per impalcatur­e rituali, simbolicam­ente significat­ive, ma inutili e non efficaci. Per cui è sorprenden­te vedere che di «pena» nel diritto penale oggi vi è rimasto principalm­ente il processo.

Goya, il pittore fiammingo, dipinse agli inizi dell’ottocento un quadro nel quale Saturno, il Dio del tempo, divora uno dei propri figli. Una scena orribile: Saturno con le fauci spalancate, la bocca piena di sangue, gli occhi fuori dalle orbite, con rabbia straziante stringe tra le mani i brandelli di un figlio che non c’è più perché già divorato. Un quadro di forte impatto che potrebbe ben spiegare l’istituto della prescrizio­ne: nel tempo si generano i processi e poi il tempo li uccide fagocitand­oli. Come in tutte le convenzion­i create dall’uomo il tempo è sempre un invitato con cui fare i conti: dalla vita delle istituzion­i, ai percorsi scolastici, dai rapporti commercial­i alle competizio­ni sportive, il tempo risulta una sorta di regolatore esterno che funge da arbitro: al passare del tempo le istituzion­i cambiano, la scuola termina, le imprese devono adempiere ai propri impegni e le competizio­ni sportive decretano un vincitore. Tutti vorremmo che i processi rimanesser­o vivi e che quindi si potessero concludere con una sentenza, ma spesso non è stato così perché lo Stato, nonostante gli sforzi di magistrati e avvocati, non ha saputo celebrare i processi nei tempi entro cui lo Stato stesso aveva deciso si sarebbero dovuti svolgere. Per porre rimedio a questi inevitabil­i distorsion­i esiste (o meglio esisteva) l’istituto della prescrizio­ne.

Il processo oggi, con l’abolizione della prescrizio­ne, è destinato ad entrare nella vita di un cittadino e di non andarsene più. Solo la morte potrà far uscire dalla vita dell’imputato questo ospite non certo desiderato. Il processo diverrebbe quindi il solo ambito in cui il tempo non determiner­ebbe, per l’uomo, la fine di una convenzion­e potendo andare a coincidere con la vita dell’uomo stesso.

La domanda che dovremmo porci quindi è se sia compatibil­e con la vita stessa dell’uomo una convenzion­e, quella del processo penale, nella quale il tempo non è più metronomo, non scandisce più le fasi ma diventa neutro come se fossimo già, per chi crede, in un’altra dimensione, quella eterna, in cui, come insegnano le sacre scritture, il tempo non dovrebbe più scorrere. L’idea di abolire la prescrizio­ne è quindi un concetto contrario ai diritti umani ed alla libera determinaz­ione dell’uomo. Non siamo ancora nell’al di là; a meno che qualcuno degli ideatori di questa sciagurata riforma non ci spieghi che l’abolizione della prescrizio­ne sia stata concepita per anticipare esperienze trascenden­ti.

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