Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
Alla Guggenheim maschere lignee e cimieri intarsiati
Alla Collezione Guggenheim le opere dell’Africa, Oceania e Americhe, 35 lavori acquistati da Peggy
Che cosa sono le opere che da domani fino al 14 giugno saranno in mostra alla Collezione Peggy Guggenheim di Venezia? Sono arte o manufatti? Che cosa ci vedeva la mecenate americana quando ha cominciato a comprarle nel 1959? E cosa dicono a noi, oggi, queste mirabili maschere lignee, copricapi e cimieri intarsiati, sculture, tessuti e contenitori cesellati di storie e simboli? Su questi interrogativi si fonda «Migrating objects», l’esposizione che raccoglie per la prima volta i 35 lavori acquistati da Peggy e che facevano capolino nella sua residenza-museo, tra una tela di Magritte, un capolavoro di Picasso e una scultura di Henry Moore. Erano la sua «Arte dall’Africa, dall’Oceania e dalle Americhe», come sottolinea il titolo della mostra. In realtà ogni «oggetto» pone una teoria di problemi, di fronte ai quali «ci mancano le parole –sottolinea Karole Vail, la direttrice di Palazzo Venier de’ Leoni – Perché le parole usate finora per lo più oltraggiano o depistano». Per questo si è affidata non a un curatore, ma un team multidisciplinare, Christa Clarke, R. Tripp Evans, Ellen McBreen, Fanny Wonu Veys, assieme alla capo-curatrice Vivien Greene. La magnificenza di questi 35 pezzi è costretta a poggiarsi su un piano discorsivo che è inevitabile e scivoloso. All’epoca dell’acquisto, tra gli anni ’50 e ’60, l’esotismo era il motore di una fetta di mercato e l’ispirazione per le avanguardie che lo usavano per disossare i canoni figurativi. L’etichetta di arte «primitiva» o «etnica» ha finito per marchiare a fuoco tutto. Estirpati (o saccheggiati) dai contesti originari, privati di ogni valore in sé, ancora oggi siamo costretti a chiamarli «oggetti», non avendo altre parole. In realtà il virtuosismo con cui sono stati creati e la bellezza che sprigionano sembrano intimamente legati alle loro funzioni sociali. «Osservare questi oggetti, ci fa capire che le categorie di arte o manufatti non sono in contrapposizione e possono convivere – dice Ellen McBreen, del Massachusetts Wheaton College – Un flauto, ad esempio, racconta il suo uso rituale, dunque rivela una ricchezza spirituale e antropologica. E allo stesso tempo ha una tale bellezza espressiva da essere considerato un pezzo d’arte».
Puntando a decolonizzare l’immaginario, la mostra alla Guggenheim aumenta di fascino. Ci invita a fare i conti con il turbamento di fronte a diciture come «Artista non riconosciuto», per una scultura della Costa d’Avorio o una terracotta messicana, una raffinata maschera amazzonica o un contenitore ligneo del Mali. E così il vocabolario geografico: che una regione si chiami «Nuova Irlanda Settentrionale in Papua Nuova Guinea» finisce per suonare terribilmente stonata più che evocare romantici esotismi.