Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
LA LEZIONE DI COVRE
Un
giorno ci sfidammo a duello. Non di spada ma di lingua. Sfida sul dialetto. Io di madre nordestina e padre siciliano, da Castelfranco, Destra Piave. Lui veneto doc, da Oderzo, Sinistra Piave. Io mezzo veneto doc - si parlava di radici e di confini fisici-politici-culturali -dissi al doc intero che conoscevo il dialetto meglio di lui. Anche quello arcaico della civiltà contadina nelle variabili lessicali (reciprocamente incomprensibili) dei cento serenissimi dialetti-lingue di paesi e città.
Si mise a ridere, ma accusò il colpo quando gli spianai la forza poetica di una delle più belle parole uscite dalla bocca di questa terra: someja.
Ammutolì, toccandosi i baffi sotto quegli occhi sempre troppo intelligenti. «Visto che non lo sai? - gli feci - Che se voglio sono più veneto di te...». Rise ancora, si arrese, tradussi: «Significa fotografia».
Someja da somejar, assomigliare. Un miracolo lessicale uscito da una semi ovvietà, la parola più giusta che il veneto numero zero del contagio linguistico abbia potuto inventare nominando per la prima volta - con l’uso delle cose da cui le parole nascono - una cosa nuova. La fotografia. Lui si vendicò con una raffica di termini che mezzi capii e mezzi no, ma alla fine della nostra disfida venne fuori il suo manifesto politico: un appassionato regionalismo declinato in forma federale e di stampo dichiaratamente Europeo.
Niente secessione, sì prosecco no ampolla, euro fortissimamente euro («Eh, vai tu a ricordare oggi agli anti euro quando con la liretta noi italiani pagavamo il 20 per cento di interessi...»). Era così Bepi Covre da Oderzo, il primo sindaco della Liga-Lega in Veneto, imprenditore, parlamentare, appassionato di storia e dichiaratamente innamorato - moglie a parte - di quel grande progetto che rivendicava il ruolo e la centralità dei sindaci. Grande anche nel suo fallimento, quel Movimento che tra il ’93 e il ‘94 era stato lanciato come messaggio forte ai naviganti romani: un vero federalismo che mettesse sotto la porta chiusa una zeppa in grado di aprire una nuova stagione politica.
Era l’esordio dell’elezione diretta dei primi cittadini e Bepi Covre - unico leghista della lista - coltivò quell’utopia assieme a Massimo Cacciari, l’imprenditore Mario Carraro, il sindaco di Venezia Mario Rigo e quello di Mogliano Diego Bottacin. A guidarli l’allora direttore del Gazzettino Giorgio Lago, che a sua volta, rimbrottato da una parte politica per la linea data al giornale, rispose che non era leghista ma «laghista» in quanto federalista.
Una scelta di campo libera e trasversale che nel Paese in cui la politica non ha mai amato la trasversalità costò a Covre l’ultimatum di Bossi: chiunque avrebbe partecipato al Movimento dei sindaci sarebbe stato espulso dalla Lega. Troppo pericoloso avere in casa uno che parlava di «semplice federalismo» nel momento in cui soffiava forte il vento secessionista, lo Stato nello Stato o contro lo Stato che il senatùr aveva come stella polare.
Lui no. Bepi Covre da Oderzo voleva cambiare la Costituzione ma in senso federale, contro ogni forma di centralismo, anche quello milanese. Fu il primo grande strappo con il partito, la prima eresia del «Leghista eretico», titolo del libro che scriverà e che verrà pubblicato dalla «Santi Quaranta» di Ferruccio Mazzariol (fatalità, un altro Sinistra Piave). E dopo quel libro arrivo la seconda eresia, che gli costò, ed è storia più recente, l’espulsione del partito: l’appoggio al referendum di Renzi. Giusto o sbagliato che fosse, un altro segno di autonomia di pensiero, l’affermazione della sua vena riformista, la rivendicazione del suo progetto di politicoimprenditore che come tanti altri produttori vedeva nella semplificazione dell’architettura istituzionale dello Stato una delle soluzioni per sgretolare le calcificazioni che, assieme al peccato mortale della burocrazia, condannano il sistema Paese.
La burocrazia. Un giorno mi chiamò per raccontarmi la pesantezza di questa peste italica e lo fece parlandomi, per converso, dell’Austria. Gli avevano copiato un brevetto registrato per difendere la sua fabbrica di mobili, che fornisce le «Ikea italiane», e aveva fato causa alla ditta concorrente. «Alessandro, apri bene le orecchie perché stenterai a credermi. A una settimana dalla presentazione della documentazione ricevo una telefonata: “Sono il giudice austriaco che segue la sua causa, la chiamo per chiederle quando è disponibile a venire a deporre, scelga lei una data”. Dopo una settimana, capito? Una settimana? Mi ha chiamato il giudice, a casa mia».
Bepi Covre era anche un grande lettore di giornali e non solo per dovere civico e professionale. E amava il «suo» Corriere, che leggeva fin da ragazzo. «Sappi che per me è sempre stato un punto di riferimento», diceva. Anche in questo anno e mezzo di dolore e di passione, mentre lottava contro il cancro, non perdeva l’occasione di scrivere e commentare. Conservo il suo wathsapp del 13 giugno 2019, subito dopo le elezioni politiche. «Ciao direttore, ottima la scelta di schierare il giornale con i sindaci.
Sono autentici
Sì, mentre il dibattito post elettorale si svolgeva tutto sui temi nazionali, avevamo schierato il giornale sui sindaci perché ritenevamo e riteniamo che l’unica grande forza «rivoluzionaria» di questo Paese siano sempre loro. Perché quella del sindaco è la politica di prossimità, vicina ai cittadini. «Eroi» che con le armi spuntate, nei loro comuni, mettono in atto la prima vera forma di federalismo: dalla gestione di un’aiuola a un piano regolatore.
Resta una domanda: era (ancora) leghista il sindaco Bepi Covre? A sentire lui certamente sì. A non essere più leghisti, secondo Bepi l’eretico, sono rimasti (quasi) tutti gli altri.