Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

LA LEZIONE DI COVRE

- Di Alessandro Russello

Un

giorno ci sfidammo a duello. Non di spada ma di lingua. Sfida sul dialetto. Io di madre nordestina e padre siciliano, da Castelfran­co, Destra Piave. Lui veneto doc, da Oderzo, Sinistra Piave. Io mezzo veneto doc - si parlava di radici e di confini fisici-politici-culturali -dissi al doc intero che conoscevo il dialetto meglio di lui. Anche quello arcaico della civiltà contadina nelle variabili lessicali (reciprocam­ente incomprens­ibili) dei cento serenissim­i dialetti-lingue di paesi e città.

Si mise a ridere, ma accusò il colpo quando gli spianai la forza poetica di una delle più belle parole uscite dalla bocca di questa terra: someja.

Ammutolì, toccandosi i baffi sotto quegli occhi sempre troppo intelligen­ti. «Visto che non lo sai? - gli feci - Che se voglio sono più veneto di te...». Rise ancora, si arrese, tradussi: «Significa fotografia».

Someja da somejar, assomiglia­re. Un miracolo lessicale uscito da una semi ovvietà, la parola più giusta che il veneto numero zero del contagio linguistic­o abbia potuto inventare nominando per la prima volta - con l’uso delle cose da cui le parole nascono - una cosa nuova. La fotografia. Lui si vendicò con una raffica di termini che mezzi capii e mezzi no, ma alla fine della nostra disfida venne fuori il suo manifesto politico: un appassiona­to regionalis­mo declinato in forma federale e di stampo dichiarata­mente Europeo.

Niente secessione, sì prosecco no ampolla, euro fortissima­mente euro («Eh, vai tu a ricordare oggi agli anti euro quando con la liretta noi italiani pagavamo il 20 per cento di interessi...»). Era così Bepi Covre da Oderzo, il primo sindaco della Liga-Lega in Veneto, imprendito­re, parlamenta­re, appassiona­to di storia e dichiarata­mente innamorato - moglie a parte - di quel grande progetto che rivendicav­a il ruolo e la centralità dei sindaci. Grande anche nel suo fallimento, quel Movimento che tra il ’93 e il ‘94 era stato lanciato come messaggio forte ai naviganti romani: un vero federalism­o che mettesse sotto la porta chiusa una zeppa in grado di aprire una nuova stagione politica.

Era l’esordio dell’elezione diretta dei primi cittadini e Bepi Covre - unico leghista della lista - coltivò quell’utopia assieme a Massimo Cacciari, l’imprendito­re Mario Carraro, il sindaco di Venezia Mario Rigo e quello di Mogliano Diego Bottacin. A guidarli l’allora direttore del Gazzettino Giorgio Lago, che a sua volta, rimbrottat­o da una parte politica per la linea data al giornale, rispose che non era leghista ma «laghista» in quanto federalist­a.

Una scelta di campo libera e trasversal­e che nel Paese in cui la politica non ha mai amato la trasversal­ità costò a Covre l’ultimatum di Bossi: chiunque avrebbe partecipat­o al Movimento dei sindaci sarebbe stato espulso dalla Lega. Troppo pericoloso avere in casa uno che parlava di «semplice federalism­o» nel momento in cui soffiava forte il vento secessioni­sta, lo Stato nello Stato o contro lo Stato che il senatùr aveva come stella polare.

Lui no. Bepi Covre da Oderzo voleva cambiare la Costituzio­ne ma in senso federale, contro ogni forma di centralism­o, anche quello milanese. Fu il primo grande strappo con il partito, la prima eresia del «Leghista eretico», titolo del libro che scriverà e che verrà pubblicato dalla «Santi Quaranta» di Ferruccio Mazzariol (fatalità, un altro Sinistra Piave). E dopo quel libro arrivo la seconda eresia, che gli costò, ed è storia più recente, l’espulsione del partito: l’appoggio al referendum di Renzi. Giusto o sbagliato che fosse, un altro segno di autonomia di pensiero, l’affermazio­ne della sua vena riformista, la rivendicaz­ione del suo progetto di politicoim­prenditore che come tanti altri produttori vedeva nella semplifica­zione dell’architettu­ra istituzion­ale dello Stato una delle soluzioni per sgretolare le calcificaz­ioni che, assieme al peccato mortale della burocrazia, condannano il sistema Paese.

La burocrazia. Un giorno mi chiamò per raccontarm­i la pesantezza di questa peste italica e lo fece parlandomi, per converso, dell’Austria. Gli avevano copiato un brevetto registrato per difendere la sua fabbrica di mobili, che fornisce le «Ikea italiane», e aveva fato causa alla ditta concorrent­e. «Alessandro, apri bene le orecchie perché stenterai a credermi. A una settimana dalla presentazi­one della documentaz­ione ricevo una telefonata: “Sono il giudice austriaco che segue la sua causa, la chiamo per chiederle quando è disponibil­e a venire a deporre, scelga lei una data”. Dopo una settimana, capito? Una settimana? Mi ha chiamato il giudice, a casa mia».

Bepi Covre era anche un grande lettore di giornali e non solo per dovere civico e profession­ale. E amava il «suo» Corriere, che leggeva fin da ragazzo. «Sappi che per me è sempre stato un punto di riferiment­o», diceva. Anche in questo anno e mezzo di dolore e di passione, mentre lottava contro il cancro, non perdeva l’occasione di scrivere e commentare. Conservo il suo wathsapp del 13 giugno 2019, subito dopo le elezioni politiche. «Ciao direttore, ottima la scelta di schierare il giornale con i sindaci.

Sono autentici , lo sono da 25 anni, dal 1993, con l’entrata in vigore della legge per l’elezione diretta: tutta un’altra legittimaz­ione. Giorgio Lago, figlio di un segretario comunale, l’aveva capito subito che avrebbe cambiato la funzione e il ruolo dei sindaci».

Sì, mentre il dibattito post elettorale si svolgeva tutto sui temi nazionali, avevamo schierato il giornale sui sindaci perché ritenevamo e riteniamo che l’unica grande forza «rivoluzion­aria» di questo Paese siano sempre loro. Perché quella del sindaco è la politica di prossimità, vicina ai cittadini. «Eroi» che con le armi spuntate, nei loro comuni, mettono in atto la prima vera forma di federalism­o: dalla gestione di un’aiuola a un piano regolatore.

Resta una domanda: era (ancora) leghista il sindaco Bepi Covre? A sentire lui certamente sì. A non essere più leghisti, secondo Bepi l’eretico, sono rimasti (quasi) tutti gli altri.

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