Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
«Pazienti con strana fame d’aria già prima dei contagi ufficiali»
Il dottor Santucci, premiato da Mattarella per aver salvato una turista, lavora oggi al Pronto Soccorso
PADOVA Dottor Carlo Santucci, dove si trovava il 21 febbraio, il giorno in cui in Veneto sono stati accertati i primi due pazienti positivi al coronavirus?
«Mi trovavo in ospedale a Padova, ero in pronto soccorso. Dal giorno dopo ho capito che questa è una malattia che avrebbe cambiato tutto».
Carlo Santucci, 34 anni, romano, è il medico precario che l’anno scorso salvò la vita a una donna mentre si trovava in treno sulle Dolomiti. In assenza di un defibrillatore, praticò per 40 minuti il massaggio cardiaco. Per questo gesto fu premiato a dicembre dal presidente Sergio Mattarella che l’ha nominato «cavaliere». In agosto ha vinto il bando regionale per 500 medici non specializzati e oggi presta servizio all’ospedale di Camposampiero.
Dottor Santucci, che esperienza ha avuto nel Pronto Soccorso di Padova?
«Prima che venisse fatto il tampone ai primi due pazienti di Schiavonia, era da settimane che arrivavano al pronto soccorso persone malate. Erano soprattutto anziane e si presentavano con gastroenteriti e con importanti infiammazioni alle vie aeree».
Come venivano diagnosticate al “triage”?
«Erano sintomatologie difficili da intercettare. Preoccupava il quadro clinico che peggiorava rapidamente. I pazienti avevano presto una grande fame d’aria».
Dopo il 21 febbraio che cosa è successo?
«Già dal giorno successivo ci hanno detto di rinforzare le nostre protezioni personali, tema su cui i miei superiori hanno sempre insistito sia a Verona, il primo ospedale dove ho lavorato in Veneto, sia a Padova».
Come sono cambiati gli accessi al Pronto Soccorso?
«I locali si sono svuotati. Gli italiani prendono il Pronto Soccorso come nostro ambulatorio personale anche per una semplice lombosciatalgia. Quando il numero dei positivi ha cominciato ad aumentare, ho visto solo i casi gravissimi e le persone che hanno realmente bisogno di un intervento, come chi viene colpito da una colica renale o da un principio d’infarto».
Che cosa ha visto nei volti delle persone che si presentavano con sintomi compatibili con il virus?
«Paura, tanta paura. Questa
è una malattia che non colpisce solo il fisico ma mina gli affetti. Non mi riferisco alla distanza di sicurezza, al fatto di non poterti salutare più con un bacio o un abbraccio. Nel volto delle persone che arrivavano in ospedale vedevo la paura di chi temeva che il contagio si fosse esteso ai congiunti a casa».
Ieri è stata un’altra giornata critica in Veneto, con 37 morti in 24 ore. È preoccupato?
«Molto. Ma in Veneto ho potuto notare che la curva del contagio cresce meno rispetto a Lombardia o Emilia-Romagna.
Le persone che muoiono in questi giorni si sono ammalate anche un mese fa, prima delle misure di contenimento di Zaia e del governo Conte».
Intende dire che covavano la malattia da più di un mese?
«Sono persone che si sono ammalate, sono rimaste a casa con la febbre per sette-dieci giorni. Poi la febbre è sparita ma è andato in crisi l’apparato respiratorio. Quando non ci si riesce a curare a casa con l’aiuto del medico di famiglia si va in ospedale».
Da medico, che cosa pensa