Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
SCUOLA, RESA DI STATO
Alla fine si è optato per il nulla. Niente fine dell’anno scolastico in presenza, almeno per le classi terminali dei vari cicli, inclusi i più piccoli. Niente attività alternative, in luoghi diversi dalle scuole. Niente lezioni di recupero nei mesi estivi, per chi ha fatto poco o nulla, e non per sua colpa, in questi mesi. Niente centri estivi, o almeno corsi di preparazione in vista della riapertura con il nuovo anno scolastico: per tappare i buchi principali di preparazione che, altrimenti, per molti rischiano di diventare irrecuperabili, e produrre abbandoni scolastici in percentuali maggiori negli anni a venire. Sospesi di fatto, per un semestre (se va bene: se non ci saranno seconde ondate del virus in autunno), gli articoli 33 e 34 della Costituzione sul diritto all’istruzione. Nessuna considerazione dei bisogni delle famiglie. Soprattutto, nessuna considerazione dei bisogni formativi e relazionali dei bambini e dei ragazzi. Tutte le cose che sarebbe stato utile fare, anche solo a livello sperimentale, a macchia di leopardo magari, se non altro per testare la capacità effettiva di ripartire a settembre – e, per tentativi ed errori, capire cosa si riesce e cosa non si riesce a fare – non sono state fatte, e non si faranno.
Niente di niente. Ha vinto il virus, non la capacità di reazione ad esso: su tutta la linea. Questo nulla è tanto più sorprendente di fronte alla constatazione – supportata ormai da molte ricerche scientifiche internazionali – che i bambini si contagiano molto meno degli adulti, quando sono contagiati ciò avviene normalmente in forme più deboli, e a loro volta contagiano gli adulti molto meno di quanto gli adulti si contagino tra di loro. Ragione per cui, in altri paesi, le scuole hanno riaperto prima, non dopo, altre attività economiche pur importanti. Insomma, in Italia, per un incomprensibile paradosso, bambini e ragazzi sono stati i più incolpevoli e al contempo i più colpiti dalle conseguenze del lockdown. Eppure la scuola dovrebbe essere al centro delle preoccupazioni del paese, essendo il principale motore dello sviluppo e del benessere economico e sociale, oltre che un indispensabile elemento di costruzione identitaria. Non a caso, nella loro storia, gli statinazione hanno cominciato con l’attribuirsi delle prerogative esclusive, come il monopolio dell’esercizio della forza legittima e quello della giustizia. Ma progressivamente, e sempre più con lo svilupparsi del welfare state, lo stato ha poi preteso delle prerogative quasi monopolistiche anche in altri ambiti: sanità, assistenza sociale e previdenza, e appunto la scuola, l’alfabetizzazione e l’istruzione, attraverso un processo che ha una sua straordinaria grandezza prima ancora che degli evidenti limiti. Ecco, proprio sulla scuola stiamo assistendo alla rinuncia dello Stato (ma anche degli altri livelli di governo che, con competenze diverse, non hanno comunque mostrato di dare all’istruzione alcuna priorità) a pensarsi e a costruirsi attraverso la costruzione della cittadinanza effettiva dei suoi membri. Già eravamo messi male prima del Covid: una percentuale di spesa pubblica sul PIL investita nel settore nettamente inferiore alla media europea, la metà dei laureati e il doppio degli analfabeti funzionali d’Europa, un’età mediana degli insegnanti superiore ai cinquant’anni persino nella scuola dell’obbligo. L’abbandono completo del settore durante la pandemia, dai nidi fino all’università (che ha retto meglio per capacità di reazione dovuta anche a una limitata ma decisiva autonomia decisionale e di bilancio), l’incapacità di trovare soluzioni d’emergenza, la rinuncia stessa a considerare questo un problema, anzi il problema, mostrano il fallimento dello stato e delle sue articolazioni, incluse regioni e comuni, su un tema cruciale non solo per la sua vita, ma per dare ad essa un senso. Un indicatore perfetto di un paese privo di bussola, di visione, di riconoscimento delle priorità, di capacità di affrontarle.