Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
Il sistema del mare e le opportunità perse
Il progetto dell’Alto Adriatico non è mai decollato, i cinesi vanno altrove
Forse la politica non ha capito l’importanza strategica dei porti. O più probabilmente è il contrario: è talmente chiaro il valore della posta in gioco che a tutti i livelli istituzionali si scatenano appetiti di potere, smanie di poltrone, lotte fratricide. Risultato: l’Italia, afflitta dal male antico del nanismo portuale, rischia di essere tagliata fuori dai grandi traffici futuri.
Forse la politica non ha capito l’importanza strategica dei porti. O più probabilmente è il contrario: è talmente chiaro il valore della posta in gioco che a tutti i livelli istituzionali si scatenano appetiti di potere, smanie di poltrone, lotte fratricide. Risultato: l’Italia, afflitta dal male antico del nanismo portuale, specie in confronto con gli scali del Nord Europa, Amburgo, Rotterdam, Anversa, rischia di essere tagliata fuori dai grandi traffici del futuro.
È cronaca di questi giorni. Succede, per esempio, che il porto di Venezia veda lo spettro del commissariamento, dopo la decisione di Città metropolitana e Regione di non firmare il bilancio consuntivo 2019. Difficile capire quali pecche si nascondano nell’atto contabile messo a punto dal presidente Pino Musolino. Evidente che dietro ci sono contrasti su alcune scelte chiave, a cominciare dall’accordo sulla gestione del terminal di Fusina. Fatto sta che la situazione venutasi a creare blocca l’attivazione degli ammortizzatori sociali per centinaia di lavoratori in difficoltà da Coronavirus. Ma soprattutto amplifica gli interrogativi sul destino del porto, già alle prese con i mancati drenaggi dei canali (motivo per cui sono stati perse linee commerciali importanti) e con la crisi nera della crocieristica.
Lo scenario non cambia di molto se ci si sposta a Trieste. Qui a mettere sulla graticola il presidente ( veneto) Zeno D’Agostino è stata niente meno che l’Anac, l’Autorità nazionale anticorruzione. Un cavillo legale è bastato a sancire la decadenza: D’Agostino al momento della nomina era presidente della società Trieste Terminal, di cui il porto detiene il 40%. Si sono levate proteste in perfetto stile bipartisan e la città è scesa in piazza compatta. Rimane comunque un bruttissima storia, che si abbatte sul primo porto italiano. Vedremo come finirà. Certo, non consola sapere che 8 presidenti di autorità portuali su 15 hanno avuto problemi di natura politica o sono finiti al centro di indagini giudiziarie. La prova provata che il sistema portuale italiano, anziché una formidabile leva per lo sviluppo del Paese, è ridotto a terreno di scontro.
Eppure i numeri sono lì da guardare. Venezia ha registrato nel 2019 un traffico di 24,9 tonnellate di merci, cui si aggiungono 1,3 milioni di tonnellate a Chioggia. Misurando anche l’indotto, l’impatto economico è quantificabile in oltre 90 mila posti di lavoro, il 61% registrati in ambito metropolitano, il 13% a livello regionale e il 26% al di fuori del Veneto. Trieste, che può contare su una profondità dei fondali superiore (18 metri contro i 10 di Venezia), ha movimentato 62 milioni di tonnellate, cui vanno sommati i 4 milioni di Monfalcone. Il Covid-19, purtroppo, ha cambiato le carte in tavola. I porti hanno continuato a operare e sono stati fondamentali per l’approvvigionamento di generi essenziali. In ogni caso, nel primo trimestre 2020 Venezia ha visto un calo nel volume dei traffici del 10,5%, Trieste ha perso il 5%. Il punto è che mai come ora, con i traffici planetari in fase di ripartenza e con i Paesi di mezzo mondo alla ricerca di un posto al sole nello scacchiere della nuova competizione globale, bisognerebbe smetterla di farsi la guerra. Di più: servirebbe assolutamente una strategia comune. Correva l’anno 2010 quando nasceva il Napa (North Adriatic Ports Association), organismo che riuniva gli scali di Venezia e Trieste, ma anche Ravenna e, dall’altra parte del mare, Capodistria e Fiume. Le buone intenzioni non sono sfociate in un progetto strategico. Nella migliore delle ipotesi si è rimasti a un clima di buoni rapporti di vicinato. In realtà, la concorrenza si è fatta sempre più accesa.
Il sogno resta sempre lo stesso: la nascita di un grande sistema portuale dell’Alto Adriatico. Un sistema capace di intercettare i grandi flussi di merce che, almeno per i prossimi venti o trent’anni, seguiranno rotte precise provenienti dall’Asia (e perché no, dall’Africa) in direzione Nord Europa, e poi via, verso America del Nord e del Sud. Un ente unico, potente dal punto di vista finanziario e capace di ottimizzare l’intera rete infrastrutturale sparsa nel nuovo triangolo industriale. Bando ai campanilismi, alle gelosie e alle mire della politica (nazionale e locale). Ci vogliono strategie e investimenti. Qualcuno torna a spingere per il progetto del porto offshore alla bocca di Malamocco. Una soluzione da molti giudicata fantascientifica ma che avrebbe il vantaggio di potere garantire l’attracco delle meganavi portacontainer, per le quali occorre un pescaggio di almeno 22 metri, soglia ormai diventata uno standard nei trasporti marittimi.
Quello che è certo è che per i porti è assolutamente necessaria una svolta. Intorno a loro ruota una buona fetta della scommessa di rinascita del Paese, dopo il clamoroso arretramento del Pil dovuto alla pandemia. I porti possono essere uno straordinario motore per la crescita: in sé, per il volume d’affari che generano, e per il territorio in cui operano. E questo vale a maggior ragione per un’area ad alta vocazione all’export come il Nordest. Una regia per la loro valorizzazione dovrebbe essere in primo piano sul tavolo del governo, invece nemmeno compaiono fra i temi all’ordine del giorno degli Stati generali in svolgimento a Villa Pamphili.
Hai voglia a parlare delle mirabilie della Nuova via della seta. La Cina di Xi Jinping ha un piano da mille miliardi di dollari per aumentare gli scambi commerciali ai cinque continenti. L’Italia, meglio ancora Venezia, dovrebbe rappresentare la porta d’accesso da e per l’Europa. Peccato che le cose stiano andando in maniera ben diversa. I cinesi non hanno perso tempo e hanno stabilito al Pireo e a Valencia i loro hub portuali europei. L’Italia si dovrà accontentare delle briciole. O addirittura finirà per cedere proprio ai cinesi il controllo dei suoi scali migliori. «Alla faccia della politica industriale» allarga le braccia Renzo Varagnolo, segretario generale della Filt (Federazione italiana lavoratori dei trasporti) Cgil del Veneto «alla fine saranno gli altri a fare la lista dei porti buoni e dei porti cattivi. E noi saremo tagliati fuori » . Un classico: mentre a Roma si discute, Segunto brucia.
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I cinesi hanno già scelto il Pireo e Valencia come loro hub in Europa
"Non regge il confronto con i grandi porti del Nord Europa, da Anversa a Rotterdam