Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
La strana vita dei maturandi post lockdown
Proprio strana la vita dei maturandi di quest’anno. Davvero faticosa. Dalle loro facce, nonostante le mascherine mi pare abbiano dormito poco o niente. Ah! Il peso delle tradizioni! Strambo non vivere le mitologie e i luoghi comuni sul tema, la versione, i teoremi et cetera, et cetera. Mentre tutti si sarebbe portati alla distrazione, alla frammentazione, allo stop&go emozionale, volenti o nolenti, anche quest’anno c’è la maturità, per quanto in formato ridottissimo. Bello davvero rivedere ragazze e ragazzi davanti ad una scuola. Perché non c’è cosa più triste di una scuola chiusa. Da tre mesi e passa, se la memoria non m’inganna. Sarà pure una «mezza maturità», una prova d’esame di sessanta minuti a due metri di distanza, dopo la primavera tetra del Covid con tutti gli annessi, soprattutto, connessi didattici e strutturali.
Il punto comune del romanzo eterno della maturità ribadito dal sentirsi e dall’andare oltre se stessi e il mondo. Più psicagogia che psicologia. Delicata e intensa di memoria e vita, quasi fosse una «certificazione d’identità» in una temperie difficile e gravosa. All’improvviso, corale e compenetrante nello spazio comune di un colloquio di maturità. Ragazze e ragazzi che, in questo senso, fungono anche da termometro della condizione attuale in bilico, sospesa. In forma di supplenza della maturità vera e propria. Perché la maturità ha influenza esistenziale, ma anche espressiva. Non è solo un voto. Biografia ed autobiografia di un’educazione, senza controfigure come al cinema o a teatro. Per crescere. Proprio per questo, per colpa di questo è indispensabile concentrarsi su quegli sguardi, sugli stessi sguardi che, anche oggi, sanno d’estate invincibile, di futuro, di aspettative, di vita.
Un generoso balzo in avanti rispetto all’ineffabile tecnicismo nella modulazione della prova, ragazzi e ragazze davanti ad una scuola che si rianima tanto bastano a disegnare contenuti a quel poco o tanto con cui verrà giudicata la loro prova.
La maturità scomoderà sempre il valore in sé del rito di passaggio, da una condizione ad un’altra che, grazie al cielo, oltrepassa l’estimo sociale dei centimetri, dei millimetri di plexiglas che avrebbero dovuto vidimare, neanche troppo dispoticamente l’asettica modellistica dello stare in classe. Sorrisi, tensioni emotive, risate, ansia, il darsi un tono di falsa sicurezza, l’oscillare fra isolamento e gruppalità rappresentano le gradazioni di una condizione particolare, di un momento magico, irripetibile alla faccia di retoriche e demagogie adulte. C’è vita, carne, appartenenza, il più delle volte, all’inossidabile comunità di destino, vedi alla voce: «maturità 2020».
L’ultimo reale e consapevole baluardo, ammessa e non concessa la minor presa rituale rispetto alla fiera della vanità equivalente, al narcisismo della performance postmoderna. Tranquilli: in quell’ora di colloquio farà capolino l’ineffabile, l’invisibile, l’imponderabile del circuito esistenziale, al di là, della facilità o meno della formula adottata dal vago sentore di epilogo, di compromesso burocratico-ministeriale. Come avere 19 anni per sempre, anche se rimuoverai tutto, rifiuterai ogni cosa, ma non la felicità, la gratitudine, la gentilezza, la diplomazia, la strafottenza, la timidezza con cui, ragazzi e ragazze, in quell’ora lì, dentro quell’ora avranno affrontato le cinque fasi cinque del colloquio. Che, va da sé, non ricorderanno né oggi, domani, dopodomani, ma fra venti, trent’anni. Ora no. E via di selfie, verso la vita.