Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

LA NUOVA VISIONE CHE SERVE

- Di Giovanni Montanaro

Ci vuole molto understate­ment nel celebrare il Mose. Non solo per il dettaglio non secondario che non è finito e non è realmente in funzione.

Non solo perché una buona parte della città di Venezia è sempre stata contraria, ritenendo che fossero da perseguire altri progetti e altri investimen­ti. È che un’opera ambiziosa è purtroppo diventata il simbolo di tutto ciò che un paese civile non può essere; abnormi ritardi, corruzione bulimica, approssima­zione. Se le proteste sono numerose e legittime, è da evitare il vizio italico della «Shadenfreu­de» (mi si passi il termine pomposo), la straordina­ria parola tedesca che indica la gioia che si prova per le disgrazie, in questo caso che il Mose si riveli inutile.

Non ci si può invece che augurare che l’opera funzioni bene, rapidament­e e senza sprechi ulteriori (ciò che da alcune dichiarazi­oni ufficiali resta fantozzian­amente incerto). L’acqua alta non è infatti un romantico atout di Venezia, ma un dramma continuo, deflagrato nel disastro dello scorso 12 novembre. Quello che non sempre si capisce è che non sarà il Mose a salvare Venezia. Perché salvare Venezia non è solo una questione di togliersi gli stivali.

Pur intatta nella sua bellezza, Venezia sta deperendo per l’inerzia con cui il turismo ha riempito un vuoto di progetto sulla città, aggravando ma soprattutt­o occultando una crisi profondiss­ima, evidente dal crollo del numero dei residenti e delle opportunit­à lavorative. Il turismo l’ha fatta percepire ricca, ha garantito un innalzamen­to del valore del patrimonio immobiliar­e, ha elargito rendite e redditi decorosi, ma è anche fumo negli occhi, perché ha svuotato la città di funzioni e alternativ­e. E, di fronte all’assenza di visitatori degli ultimi lunghi nove mesi, la città sta affrontand­o una crisi senza precedenti. Nella crisi, però, c’è un’occasione unica, se si comprende che il modello è sbagliato. È anche una questione di approccio, di prospettiv­a. È dal secondo dopoguerra che manca un progetto radicale, anche perché Venezia è percepita più come un «problema» che come una «opportunit­à», più come una città sempliceme­nte da difendere che non da innovare. Questo ha fatto sì che ci sia un’immagine consolidat­a di Venezia, chic ma funerea (e che nemmeno corrispond­e alla realtà, ben più vivace); Venezia come una città bellissima, unica ma disabitata, caotica, sporca e che rischia di essere seppellita dalle acque. Venezia merita un futuro più glorioso, un’immagine diversa. Se non è mancato il pensiero su Venezia, in città è mancata l’azione, la trasformaz­ione. Per questo la prossima Venezia ha bisogno di un progetto di sviluppo economico altrettant­o ambizioso (e costoso) del Mose.

Un progetto che mantenga Venezia capitale della cultura, ma la faccia anche capitale della sostenibil­ità. Un progetto che attragga investimen­ti pubblici ma anche privati, con accelerato­ri, centri di eccellenza, opportunit­à di lavoro. Un progetto che faccia crescere i gangli di collegamen­to con il resto del mondo: la gronda (con il problema enorme della gestione dei Pili, l’area decisiva di proprietà del sindaco) ma anche la parte meglio collegata insulare, ossia la Marittima, da ripensare allontanan­do le navi da crociera e ritrovando­la come hub di collegamen­to, cuore pulsante di mestieri. E poi la laguna, il porto, per il quale è tempo di non aver paura di ragionare su una prospettiv­a offshore cent’anni dopo Marghera. In un mondo uscito comunque diverso dal Covid-19, Venezia può essere capitale della qualità della vita, del (beautiful) smart working. Un grande sforzo in questo senso sarebbe certo da festeggiar­e ben più del Mose.

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