Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
CONSIGLIERI SOBRIETÀ MANCATA
Non sembra esserci pace per i «poveri» consiglieri regionali, storicamente inseguiti dalle polemiche sull’entità dei loro lauti stipendi e nella contingenza alle prese con il caso dei rimborsi spese percepiti in modo forfettario nel periodo del lockdown, quando tutto il Paese è stato costretto a rimanere rintanato in casa. Stiamo parlando di 4.500 euro al mese (degli 8.300 netti percepiti) esenti dalla rendicontazione di scontrini e fatture per viaggi e cene di rappresentanza che ovviamente, nel totale isolamento, non si sono potuti svolgere. Niente viaggi e cene, niente rimborsi, direbbero la logica e il pudore. Invece i soldi sono stati incassati senza fare una piega, a parte rare e sedicenti donazioni, dichiarate peraltro a posteriori, di qualche consigliere. Tutto regolare, per la legge. Una pagina stridente, invece, se confrontata con quell’ampio pezzo di Paese che barcolla fra bilanci da guerra, negozi e bar che chiudono, casse integrazioni e tagli volontari di stipendi di molte figure apicali (private, non pubbliche) per dare alla comunità il senso della condivisione della responsabilità morale e materiale di fronte al dramma del Covid. E se era forse difficile pretendere dai consiglieri di autoemendarsi rinunciando alla cifra non spesa, più auspicabile sarebbe stato che la «macchina regionale» avesse battuto un colpo affrontando il problema dell’evidente «incongruenza».
Insomma, amnesie «private» e mancanze istituzionali. Bene ha fatto il governatore Luca Zaia (che da presidente della Regione percepisce solo qualche centinaio di euro in più dei consiglieri e che durante il lockdown si è sempre mosso) a intervenire chiedendo di restituire parte dei soldi in questione, ovvero quella non direttamente riferibile all’attività svolta sul territorio nei giorni dell’emergenza. «Perché - testuale - i cittadini normali non stanno lì a ragionarci troppo su: per loro se un rimborso spese è legato ai viaggi e non si viaggia va restituito, punto».
E bene hanno fatto i Cinque Stelle a rivendicare la primogenitura della proposta (inascoltata) di rinunciare in tutto o in parte a quella voce della busta paga, visto che nessuno poteva fisicamente recarsi a Venezia. Cinque Stelle ai quali va dato atto di restituire sempre - al netto di ricevute e scontrini per l’attività svolta - le somme eccedenti, che finiscono in un fondo che finanzia iniziative legate alle emergenze (ad esempio il «dopo Vaia»). E bene, ancora, farà la Corte dei Conti, che ha aperto un faro sul caso, a verificare appunto le eventuali «incongruenze».
Il «baco», in ogni caso, resta. Per questo è auspicabile che il nuovo Consiglio regionale che uscirà dalla tornata elettorale del 20 e 21 settembre prossimi cambi le regole e cancelli l’istituto della forfettizzazione. E magari, anche, il tetto dei 4.500 euro, che non sono proprio pochi per consentire l’esercizio del mandato politico. Per quanto si possa credere all’onestà e alla correttezza di chi ci rappresenta, sembra più ragionevole modificare il meccanismo compensativo ristabilendo il principio secondo il quale si incassa in relazione a quanto si spende. Tradotto, rimborsi a fronte del rendicontamento delle spese. Certo, va ribadito che la politica ha un costo (e il ragionamento vale anche per i parlamentari) ma un conto è difendere il diritto delle rappresentanze ad una retribuzione adeguata e svincolata da ogni deriva demagogica, un altro pagare stipendi sproporzionati rispetto al ruolo e alla «produttività» (peraltro difficilmente misurabile) di chi lo svolge .
Questo giornale, proprio sulle retribuzioni dei consiglieri regionali, ha peraltro un «conto aperto». Che ovviamente nulla ha a che fare con i singoli e attiene, piuttosto, al sistema. Già durante la precedente legislatura aprimmo un dibattito (a tinte forti) che partiva da una considerazione che ritenevamo e riteniamo ragionevole. Ovvero il forte squilibrio fra gli stipendi di chi siede nell’assise regionale e quelli dei sindaci, che con il doppio-triplo di responsabilità e impegno percepiscono all’incirca dalla metà in giù degli 8.500 euro corrisposti ai colleghi. Il tema dell’eccesso nella concessione di certi emolumenti fu messo in campo con determinazione e per molti aspetti condiviso ma alla fine naufragò nel mare della dimenticanza e dello gnorri. Fu un «dibattito» che culminò in un surreale consiglio regionale nel quale venimmo attaccati (anche sul piano personale) al punto che alcuni esponenti di Palazzo Ferro Fini proposero una mozione (bocciata) per togliere ai giornalisti il diritto di candidatura alle elezioni venete (forse per il timore di vedersi conteso cotanto stipendio). Il tema naturalmente, anche con l’evidenza del caso rimborsi, rimane attuale. Soprattutto in un filotto di tempi - dalla crisi del 2008, alla tragica stagione degli imprenditori suicidi fino all’emergenza della pandemia che sta cambiando i connotati al mondo - in cui le paghe degli italiani hanno mediamente subìto drastiche e dolorose riduzioni, i consumi sono crollati, le imprese faticano a rimettersi in piedi, le disuguaglianze aumentano. Proprio per questo, pur nel profondo bisogno di una politica che sia messa in grado di lavorare per il miglior governo del Paese e dei suoi territori, serve la pre-condizione di cui parlavamo. Una grande, grandissima sobrietà.