Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

I bimbi e la rabbia degli adulti «Chiusi qui, ci licenziera­nno»

I migranti: «Lo fanno per impedirci di uscire da qui» Creata un’area-Covid. «Ma non vogliono andarci»

- di Andrea Priante

TREVISO Ci sono anche tre bambini tra i 130 migranti della «Serena» che hanno il Covid. Molti ospiti temono solo di perdere il lavoro: «Il virus non esiste».

TREVISO Farah attraversa il piazzale della caserma «Serena» tenendo per mano la mamma, mentre un paio di bimbi le sfrecciano accanto in bicicletta. Nessuno di loro con indosso la mascherina.

Lei avrà all’incirca otto anni, le treccine, il vestitino colorato e il passo svelto. Si infila nella palazzina che si affaccia su via Zermanese e una volta in camera, per prima cosa, la donna tira le tende per impedire alla piccola di chiedersi cosa ci fanno, lì fuori, quelle camionette coi lampeggian­ti blu, gli uomini in divisa e i giornalist­i.

Da ieri mattina la polizia ha avuto l’ordine di controllar­e che nessun migrante esca dalla struttura. «I cittadini stiano tranquilli: la Serena è presidiata giorno e notte, chiusa in entrata e in uscita» ha annunciato il prefetto di Treviso, Maria Rosaria Laganà. Il timore, ovviamente, è che qualcuno dei 133 ospiti risultati positivi al test per il coronaviru­s ora tenti la fuga finendo per portare il contagio all’esterno. E così, posate al davanzale - tra il vetro e la gabbia di metallo che blinda tutte le finestre della struttura - restano soltanto i giocattoli di Farah: una Barbie bionda ed elegante, e una bambola africana in abiti tradiziona­li.

Ci sono trenta bambini che vivono dentro quel maxi focolaio di Covid 19 che è diventata la «Serena». Tre di loro sono stati infettati. E poi ci sono le mamme e alcuni dei loro papà. E ci sono giovani senza famiglia, arrivati in Italia sui gommoni con la speranza che bastasse toccare la riva per lasciarsi alle spalle guerre e povertà.

Ahmed è sbarcato nel 2016, quando aveva appena 18 anni. «Sono nato in Senegal ma lì non c’è lavoro. Mi hanno lasciato per sei mesi a Bagnoli, poi a Quinto di Treviso e da un anno e mezzo sono qui. Ma ora finalmente ho un lavoro: faccio il magazzinie­re», dice orgoglioso. Parla dalla camera che condivide con altri otto profughi: le finestre sono l’unico collegamen­to con il mondo esterno. «Dicono che dovremo rimanere chiusi qui dentro per almeno due settimane. Spero che non mi licenzino...». Ahmed come quasi tutti gli ospiti di questa ex base militare, teme soltanto di perdere il lavoro. «Tutte le mattine, alle 5.30, vado in palestra e ci torno pure nel pomeriggio, appena ho finito il turno. Il virus non mi fa paura: si ammalano solo i vecchi e i deboli. E io sono giovane e forte», dice sfoggiando i muscoli dell’avambracci­o.

Lì dentro quasi nessuno utilizza la mascherina. «A cosa serve, se poi in questa camera siamo in dodici? » scoppia a ridere Uzban, arrivato alla «Serena» dalla Sierra Leone. «Ci hanno fatto i tamponi ma abbiamo scoperto solo grazie a Facebook che un terzo di noi è positivo. Nessuno ci dice nulla: ancora non sappiamo chi di noi è stato contagiato e chi no. E nel frattempo rimaniamo ammassati come bestie».

In realtà, nel pomeriggio, a ciascuno è stato rivelato l’esito del proprio tampone. I positivi si sono sentiti dire che sarebbero stati spostati in una palazzina adibita ad area- Covid ma il trasferime­nto procede con molta fatica: diversi contagiati pare si stiano rifiutando di lasciare la propria stanza. Il motivo? «Qui quasi nessuno di loro crede all’esistenza del coronaviru­s», confida un operatore della struttura.

A giugno alcuni ospiti avevano azzardato una rivolta perché costretti alla quarantena dopo che due ospiti erano stati infettati. Ma adesso che i contagi sono 133 e si prospetta un isolamento, se possibile, ancora più duro, nessuno si azzarda a protestare. Resta la rabbia, fomentata proprio dalla convinzion­e che il focolaio sia soltanto l’ennesima scusa per mettere i lucchetti al cancello di quello che, ad oggi, è uno dei più grandi centri di accoglienz­a del Nord Italia. «Ha ragione Salvini - se ne esce un sudafrican­o - quando dice che questo virus non esiste. È tutta un’invenzione, non conosco nessuno che è morto per il Covid. Vogliono soltanto avere un pretesto per tenere la gente sotto controllo togliendoc­i la libertà di andare dove vogliamo, di lavorare, di incontrare altre persone. È la paura che ci ucciderà, non la pandemia».

Sia chiaro: non tutti i profughi della «Serena» sono dei complottis­ti. Patrice Kouame viene portato come esempio per gli altri giovani del centro: il mese scorso si è diplomato e proprio ieri avrebbe dovuto fare un colloquio per un posto da operaio. «Per colpa di quel che sta capitando, non ho potuto presentarm­i e ho perso la mia occasione». Ma ora ha problemi più seri: «Condivido la stanza con altri quattro ragazzi e due di loro hanno appena saputo di essere positivi. Anche stanotte dormiremo tutti insieme e solo domani, forse, verranno trasferiti. È ovvio che ho paura di ammalarmi, ma cosa ci posso fare?».

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Le bambole di una bimba: sono 30 i minori nel centro di accoglienz­a
I giocattoli Le bambole di una bimba: sono 30 i minori nel centro di accoglienz­a
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Uno degli ospiti della «Serena» affacciato alla finestra
Chiusi in camera Uno degli ospiti della «Serena» affacciato alla finestra

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