Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

Batterio killer all’ospedale, il pm: omicidio colposo

Il personale si difende: «Tutti fanno il bagnetto con l’acqua di casa»

- di Andrea Priante e Davide Orsato

La procura di Verona indaga per omicidio colposo, nell’ambito dell’inchiesta sulle cause del batterio killer che ha ucciso quattro bimbi ricoverati in terapia intensiva neonatale a Borgo Trento. Intanto infuria la polemica poltica, con il governator­e Zaia che chiede al dg di prendere provvedime­nti.

VERONA Nel cortile dell’«Ospedale della donna e del bambino» di Borgo Trento a Verona, Francesca Frezza ha il volto tirato di chi non chiude occhi da giorni. Passeggia avanti e indietro, rilascia interviste, parla con chiunque voglia stare ad ascoltarla. Ripete di volere giustizia. La mamma della piccola Nina, una delle quattro vittime accertate del batterio killer, trasmette un dolore straziante.

Quando all’ingresso si affaccia una donna, la riconosce subito. E la insegue. «È una delle infermiere che lavoravano nel reparto di terapia intensiva neonatale quando fu ricoverata­la mia bambina», spiega. «Dovete chiedermi scusa!». Rabbia e lacrime. L’infermiera scuote la testa: «Signora, se vuole fare uno show davanti alle telecamere, io non sono disponibil­e». E sparisce tra i corridoi dell’ospedale.

Per il personale di Borgo Trento sono giorni terribili. Gli operatori si sentono sotto accusa, come fossero loro il killer che ha ucciso quei neonati. «È difficile, medici e infermieri devono affrontare emozioni molto forti» prova a spiegare Massimo Franchi, il direttore del Dipartimen­to Materno infantile. Ha 65 anni, insegna ginecologi­a all’università ed è considerat­o un luminare nel suo settore. Da giugno, nel pieno della bufera mediatica, l’Usl l’ha messo a capo dell’intera struttura. «Cosa provano? È come un papà che regala al figlio la sua prima bicicletta e poi il piccolo si schianta contro un’auto e muore. Il genitore si chiede se in fondo può essere anche colpa sua, se facendo una scelta diversa il suo bimbo sarebbe ancora vivo, se avrebbe potuto proteggerl­o in qualche modo... È devastante». Franchi entra in uno stanzino e mostra un rubinetto identico a quello che avrebbe contaminat­o la terapia intensiva. Indica il cilindro bianco, posto all’estremità. «Adesso abbiamo installato questi filtri, il batterio ora non passerebbe più». Forse, bastava davvero poco.

«Continuo a ripetermi che non devo sentirmi in colpa», confida Valentina (il nome è di fantasia), una delle infermiere che facevano parte dell’equipe che ha seguito la terapia intensiva neonatale prima del caso Citrobacte­r. Oggi è stata spostata in altri reparti. «Nessuno può avere allungato il latte con l’acqua contaminat­a - assicura - perché viene preparato nel “lattario”, una stanza apposita, da ostetriche e puericultr­ici specifiche. Non usiamo latte in polvere e quindi non c’era bisogno di usare quel rubinetto. Inoltre, i biberon sono usa e getta: se toccano l’acqua si deformano e diventano inutilizza­bili. Tutte le mamme sanno che occorre utilizzare liquidi e biberon sterili».

Valentina inizia a piangere e non smette più. «È orribile, ci vogliono usare come capro espiatorio, scaricando sul personale sanitario tutte le responsabi­lità». Resta la domanda: come è arrivato il batterio sui biberon? La tesi è che i bambini potessero già essere contaminat­i. E qui si torna al lavandino e al rubinetto con il Citrobacte­r.

Giovanna (altro nome di fantasia, molti anni di esperienza alle spalle) è un’altra infermiera che faceva parte dell’equipe. Spiega che «facevamo il bagnetto ai bimbi, come era indicato dalle procedure e come è sempre stato fatto. I neonati si lavano con l’acqua del rubinetto, non c’è nulla di strano. In fondo è esattament­e ciò che fa qualunque mamma, quando porta il figlio a casa...». Il personale è sconvolto. «Avevamo fatto notare che quattro lavandini per 32 box, uno ogni otto bambini, erano troppo pochi » , ricorda Giovanna. «Siamo delle profession­iste serie, con anni di esperienza nella cura dei bambini più fragili. Ma quando abbiamo sollevato dubbi sul materiale e sul tempo a disposizio­ne per seguire tutti i pazienti, non ci hanno ascoltate».

Non c’è solo da fare i conti con la consapevol­ezza di quelle vite spezzate. «La cosa che fa più male - si sfoga Valentina - è l’essere trattate come il problema. Fin da subito ci hanno individuat­o come la possibile causa di tutto. Siamo state sottoposte a tampone anale e nessuna di noi è risultata avere il batterio. Ora ci hanno messe a lavorare da un’altra parte, anche se è chiaro che non siamo noi la causa di tutto». L’«Ospedale della donna e del bambino» ha riaperto, ma nessuno ha voglia di festeggiar­e. Anzi, forse sì. Da una stanza si sente il pianto di un neonato. Si chiama Anna Maria, pesa due chili e 800 grammi ed è nata la notte scorsa. Per tornare a credere nel futuro, occorre perdersi negli occhi della sua mamma.

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Il medico Massimo Franchi , direttore del Dipartimen­to Materno infantile . Sotto , Maria Teresa, con in braccio la piccola Anna Maria
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