Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
IMPRESE, ESISTE UNA VIA EMILIA?
Al recente Festival Città Impresa di Vicenza uno dei temi dibattuti è stato il ruolo dell’Emilia Romagna nel nuovo triangolo industriale formato con Veneto e Lombardia. I numeri sembrano indicare l’esistenza di una via emiliana al rinascimento industriale (vedi Zovico, Le nuove geografie del Pil, Egea). Le comparazioni regionali mi sembrano rischiose per due motivi. Il primo riguarda le modalità del tutto arbitrarie con cui l’Istat agli albori del Regno d’Italia individuò le «circoscrizioni statistico amministrative ».
Le stesse che poi la Repubblica recepì come Regioni. Il secondo deriva dalla convinzione che la competizione non si sviluppi tra territori ma tra imprese o, meglio, tra filiere e «cluster» di imprese.
Il che non significa trascurare i fattori culturali e istituzionali che qualificano un territorio. Questi vanno rapportati alla popolazione imprenditoriale che lo abita. Parlare di vantaggi o svantaggi competitivi di un territorio significa quindi parlare di imprese. Imprese che sarebbe oggi difficile racchiudere in confini regionali. Le imprese più citate nella discussione di Vicenza sono state Lamborghini, Ducati e Philip Morris: le prime due controllate dai tedeschi, la terza una multinazionale attratta in Emilia con un’operazione che spiega cosa si potrebbe intendere per politica industriale regionale.
L’Emilia ha più biodiversità imprenditoriale e istituzionale del Veneto e forse anche della Lombardia. La metafora della biodiversità si presta bene a segnalare la varietà di tipologie aziendali in termini di dimensione: piccole e piccolissime, medie e grandi imprese tutte con una presenza diffusa non dominante; di proprietà: familiare, cooperativa e diffusa; di apertura internazionale: rilevanti investimenti diretti esteri in entrata e in uscita; di soluzioni tecnologiche: non solo meccanica ma meccanica più elettronica più digitale, non solo informatica ma big data e intelligenza artificiale (vedi CiapettiMosconi, Reggio Emilia, il territorio della meccanica intelligente, il Mulino); di modelli di business: competizione di prezzo ma anche competizione nell’innovazione di prodotto e ibridazione con il servizio; di uso della ricerca e della formazione: non solo università ma anche altri centri pubblici e privati, istituti tecnici superiori; di partnership con la finanza evoluta: Borsa, Fondi a vocazione industriale e non solo finanziaria; e così via.
La presenza di aziende con queste caratteristiche ha una ricaduta positiva sulle imprese esistenti e sulla nascita di nuove. Ricaduta che si dimostra rilevante sia nel caso di successo, il che è abbastanza scontato; sia nel caso di insuccesso. È noto che le grandi crisi di fine anni Sessanta e inizio anni Ottanta (meccanica e tessile-abbigliamento) o del 2008 (un po’ tutti i settori) hanno generato ondate di nuova imprenditorialità alimentate da manager e tecnici che avevano perso il lavoro. È andata così nel Veneto con le crisi della Zanussi, della Sanremo, della Marzotto; in Emilia con la crisi delle Officine Reggiane o delle aziende del biomedicale nel post-terremoto nella zona di Mirandola. La stessa Ferrari nacque dal licenziamento del direttore corse dell’Alfa Romeo in crisi. Aziende che si sono rivelate importanti almeno quanto le business school e le università nella diffusione di cultura imprenditoriale e manageriale.
Un altro elemento che può differenziare le culture imprenditoriali riguarda la leadership, in rapida evoluzione in Emilia. Per il Veneto la situazione è ben descritta da una citazione ancora attuale, tratta dall’autobiografia postuma di un imprenditore veneto che, avendo dovuto cedere in condizioni drammatiche l’azienda, si rammarica di non essere andato in Borsa, scelta che spiega un po’ brutalmente così: «Sottoporsi alle restrizioni e ai controlli legati alla quotazione urtava il mio voler essere il paròn ».
Aggiungo un terzo fattore culturale che riguarda l’orientamento verso le donne in ruoli aziendali. L’Emilia-Romagna ha un tasso d’occupazioni femminile di 4,3 punti percentuali superiore al Veneto. Ciò detto, non creiamo un altro mito come abbiamo fatto in passato con il «modello Veneto». Cerchiamo invece di imparare da ciò che sembra funzionare meglio.