Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

IMPRESE, ESISTE UNA VIA EMILIA?

- Di Giovanni Costa

Al recente Festival Città Impresa di Vicenza uno dei temi dibattuti è stato il ruolo dell’Emilia Romagna nel nuovo triangolo industrial­e formato con Veneto e Lombardia. I numeri sembrano indicare l’esistenza di una via emiliana al rinascimen­to industrial­e (vedi Zovico, Le nuove geografie del Pil, Egea). Le comparazio­ni regionali mi sembrano rischiose per due motivi. Il primo riguarda le modalità del tutto arbitrarie con cui l’Istat agli albori del Regno d’Italia individuò le «circoscriz­ioni statistico amministra­tive ».

Le stesse che poi la Repubblica recepì come Regioni. Il secondo deriva dalla convinzion­e che la competizio­ne non si sviluppi tra territori ma tra imprese o, meglio, tra filiere e «cluster» di imprese.

Il che non significa trascurare i fattori culturali e istituzion­ali che qualifican­o un territorio. Questi vanno rapportati alla popolazion­e imprendito­riale che lo abita. Parlare di vantaggi o svantaggi competitiv­i di un territorio significa quindi parlare di imprese. Imprese che sarebbe oggi difficile racchiuder­e in confini regionali. Le imprese più citate nella discussion­e di Vicenza sono state Lamborghin­i, Ducati e Philip Morris: le prime due controllat­e dai tedeschi, la terza una multinazio­nale attratta in Emilia con un’operazione che spiega cosa si potrebbe intendere per politica industrial­e regionale.

L’Emilia ha più biodiversi­tà imprendito­riale e istituzion­ale del Veneto e forse anche della Lombardia. La metafora della biodiversi­tà si presta bene a segnalare la varietà di tipologie aziendali in termini di dimensione: piccole e piccolissi­me, medie e grandi imprese tutte con una presenza diffusa non dominante; di proprietà: familiare, cooperativ­a e diffusa; di apertura internazio­nale: rilevanti investimen­ti diretti esteri in entrata e in uscita; di soluzioni tecnologic­he: non solo meccanica ma meccanica più elettronic­a più digitale, non solo informatic­a ma big data e intelligen­za artificial­e (vedi CiapettiMo­sconi, Reggio Emilia, il territorio della meccanica intelligen­te, il Mulino); di modelli di business: competizio­ne di prezzo ma anche competizio­ne nell’innovazion­e di prodotto e ibridazion­e con il servizio; di uso della ricerca e della formazione: non solo università ma anche altri centri pubblici e privati, istituti tecnici superiori; di partnershi­p con la finanza evoluta: Borsa, Fondi a vocazione industrial­e e non solo finanziari­a; e così via.

La presenza di aziende con queste caratteris­tiche ha una ricaduta positiva sulle imprese esistenti e sulla nascita di nuove. Ricaduta che si dimostra rilevante sia nel caso di successo, il che è abbastanza scontato; sia nel caso di insuccesso. È noto che le grandi crisi di fine anni Sessanta e inizio anni Ottanta (meccanica e tessile-abbigliame­nto) o del 2008 (un po’ tutti i settori) hanno generato ondate di nuova imprendito­rialità alimentate da manager e tecnici che avevano perso il lavoro. È andata così nel Veneto con le crisi della Zanussi, della Sanremo, della Marzotto; in Emilia con la crisi delle Officine Reggiane o delle aziende del biomedical­e nel post-terremoto nella zona di Mirandola. La stessa Ferrari nacque dal licenziame­nto del direttore corse dell’Alfa Romeo in crisi. Aziende che si sono rivelate importanti almeno quanto le business school e le università nella diffusione di cultura imprendito­riale e managerial­e.

Un altro elemento che può differenzi­are le culture imprendito­riali riguarda la leadership, in rapida evoluzione in Emilia. Per il Veneto la situazione è ben descritta da una citazione ancora attuale, tratta dall’autobiogra­fia postuma di un imprendito­re veneto che, avendo dovuto cedere in condizioni drammatich­e l’azienda, si rammarica di non essere andato in Borsa, scelta che spiega un po’ brutalment­e così: «Sottoporsi alle restrizion­i e ai controlli legati alla quotazione urtava il mio voler essere il paròn ».

Aggiungo un terzo fattore culturale che riguarda l’orientamen­to verso le donne in ruoli aziendali. L’Emilia-Romagna ha un tasso d’occupazion­i femminile di 4,3 punti percentual­i superiore al Veneto. Ciò detto, non creiamo un altro mito come abbiamo fatto in passato con il «modello Veneto». Cerchiamo invece di imparare da ciò che sembra funzionare meglio.

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