Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
Valanga Zaia: vale tre volte la Lega
Governatore al 76 %, la vittoria più alta di sempre. La sua lista al 46%, quella del Carroccio si ferma al 16% «Nessun dualismo, ringrazio il mio partito. Non ho ambizioni nazionali, adesso l’autonomia». Tracollo dem
VENEZIA Zaia stravince con un dato che è il più alto di sempre: oltre il 76%. E la sua lista triplica quella della Lega, 46% contro il 16% . «Una grande responsabilità. Ora l’autonomia».
Luca Zaia straripante, domina le elezioni in Veneto ma non solo: la sua figura si staglia ormai a livello nazionale, oscura Matteo Salvini e s’impone «sul campo» per la leadership del centrodestra con un consenso personale plebiscitario e autonomo, uomo-partito che per certi versi sta alla Lega nazionale come la Csu bavarese sta alla Cdu in Germania.
In questo momento storico i veneti, semplicemente, fanno ciò che Zaia chiede: lui lamenta il rischio astensione («È il candidato più insidioso») e loro, nonostante i timori per il covid e il risultato scontato, si presentano ai seggi con la più alta affluenza d’Italia (con la Toscana), più alta perfino di 5 anni fa: 61%, contro 57%; lui chiede di potersi impegnare per il Veneto per altri 5 anni, completando così il suo quindicennio a Palazzo Balbi (come il predecessore, Giancarlo Galan) e loro gli tributano un roboante 76% che non ha precedenti in Italia da quando è stata introdotta l’elezione diretta dei presidenti di Regione (De Filippo nel 2005 arrivò al 67% in Basilicata, stesso risultato ottenuto ieri in Campania da De Luca ma quando scriviamo lo spoglio non è ancora concluso); lui invoca «una legittimazione forte, perché solo così si possono prendere decisioni difficili» e loro vanno oltre ogni aspettativa, dando a Lega e Lista Zaia la maggioranza assoluta dei seggi in consiglio con un 62% (dati parziali) che relega gli alleati di Fdi e Fi ad un ruolo perfino più ancillare di quello ricoperto negli ultimi 5 anni. Accadde solo alla Dc nel 1970, nel 1975 e nel 1980.
La previsione dei sondaggi è stata ampiamente rispettata e Zaia ha fatto ciò che Salvini gli aveva chiesto: stravincere, non vincere. Col rischio di passare per malevoli, abbiamo il sospetto che l’intenzione di «Matteo» fosse quella di rendere la vita più complicata a «Luca», quasi che una vittoria al 60% fosse una mezza sconfitta. Se così era, gli è andata male pure questa, oltre alla spallata fallita al governo e alla conquista mancata della Toscana. Ora Salvini ha semmai un problema in più: la Lista Zaia (col nome di Zaia nel simbolo) triplica quella della Lega (col nome di Salvini nel simbolo), 46% contro il 16% e ripropone con forza la distanza tra la «Lega pedemontana», come l’ha chiamata Ilvo Diamanti, e la «Lega nazionale» che mira alla conquista del Sud, progetto cardine della stagione salviniana fin qui fallito. Altro guaio: molti big, proprio per il diktat imposto da via Bellerio, sono stati costretti a correre nella compagine del partito ed ora rischiano di restare fuori. Questo, più di tante sottigliezze politologiche, potrebbe terremotare gli equilibri interni al Carroccio.
In Rete si sorride con «Zaiaescu» che insegna ai bulgari come vincere e «Lucashenko» dittatore dello «Zaiastan» ma Zaia vince in Veneto perché somiglia al Veneto, ne incarna indole, difetti e virtù. Al termine di un cursus honorum lungo vent’anni, «lento» per i tempi della politica di oggi (da Renzi allo stesso Salvini), senza allunghi e senza azzardi, Zaia ha costruito un consenso granitico che non può essere ridotto alla buona gestione dell’emergenza coronavirus o alle doti di comunicatore. Il popolo si riconosce in lui dalle Dolomiti al Delta con picchi oltre il 90% nella sua provincia di Treviso. Lo votano da destra, dal centro e da sinistra, come conferma l’altissimo numero di voti disgiunti, quelli perorati dai candidati del Pd arresisi prima del tempo: le liste della sua coalizione, alle 23.30, si attestano a quota 994 mila; lui ne prende 1,2 milioni. Già durante lo spoglio YouTrend profetizzava: «Se la Lista Zaia proseguisse così, potrebbe superare il milione di voti, dato sufficiente a superare da sola la soglia di sbarramento nazionale del 3%». Per intendersi: nel 2018, alle Politiche, LeU prese un milione di voti e portò a Roma 14 deputati e 4 senatori. Suggestioni, ma danno l’idea.
A grandi poteri, diceva Peter Parker, corrispondono grandi responsabilità e Zaia sa bene quale sia la più gravosa che lo attende: «Questo risultato è un voto dei veneti per il Veneto, per quelli che sono qui da generazioni, per quelli di adozione e per gli ultimi arrivati che hanno un progetto di vita in Veneto. Qualcuno chiederà adesso qual è il mio obiettivo: l’obiettivo è uno, l’autonomia». È la sua eredità politica e l’occasione è irripetibile: mai prima d’ora i governatori, anche grazie all’emergenza covid e alla delicata gestione della fase post-lockdown, hanno goduto di un simile potere contrattuale con una Roma spesso all’inseguimento delle decisioni maturate sui territori. Una rivendicazione di «autonomia» trasversale ai partiti, da Nord a Sud, che unisce Zaia a Bonaccini e De Luca.
Agli altri, giocoforza, non resta che recitare da comparse. I Fratelli d’Italia centrano un buon risultato, quadruplicano i voti del 2005 ma non riescono a raggiungere il traguardo della doppia cifra che ambiziosamente si erano posti. Forza Italia conferma anche sul territorio il lento ma inesorabile processo di dissolvimento che si accompagna al declino del leader. I Cinque Stelle, dilaniati dalle guerre intestine ormai tutt’altro che sotterranee tra i filo-dem del ministro
Federico D’Incà e i duri e puri dell’ex capogruppo Jacopo Berti, dopo la scelta di correre da soli con Enrico Cappelletti hanno ansimato tutto il giorno attorno alla soglia del 3%, superandola a stento con un 3,3% che li riduce da forza di governo del Paese a sigla irrilevante sul territorio. La loro proposta politica continua ad apparire evanescente e la protesta a colpi di esposti in procura non può bastare. Gli autonomisti, cannibalizzati da Zaia che agli occhi dei veneti è la riforma fatta uomo, fanno flop sia nella loro versione più strong, tendenza indipendenza di Antonio Guadagnini sia nella versione progressista di Simonetta Rubinato. Con tutta evidenza, gli elettori non ritengono che quanto fatto fin qui sia «pari allo zero» e che il patrimonio del referendum del 2017 sia stato dilapidato.
Infine, veniamo al centrosinistra. La sconfitta era ampiamente annunciata e anche qui le previsioni dei sondaggi sono state rispettate. Diciamolo subito: chiunque si fosse presentato contro Zaia, in questo momento, sarebbe uscito con le ossa rotte. Ciò non di meno, la scelta del Pd (perché è ai dem che vanno addossate le responsabilità più pesanti, in quanto forza guida della coalizione) di puntare su un profilo civico come Arturo Lorenzoni, persona perbene ma assolutamente impreparata alla sfida contro un campione rodato come Zaia (si è affacciato alla politica per la prima volta nel 2017) e sconosciuta al di fuori della sua Padova, si è rivelata totalmente fallimentare. Si voleva «allargare il perimetro», si sperava nel soccorso della società civile, dei movimenti, delle Sardine. Risultato: il centrosinistra veneto è passato in 15 anni dal 42% di Massimo Carraro al 29% di Giuseppe Bortolussi, al 22% di Alessandra Moretti al 16% di Arturo Lorenzoni. L’immagine della resa incondizionata allo strapotere di Zaia sta nella foto della sede del Pd, ieri sera, a Padova: una stanza desolatamente vuota. Non pervenuti i dirigenti locali, a lungo introvabili anche al telefono, e lontani, non solo fisicamente, quelli nazionali, troppo presi a festeggiare la difesa della Toscana mentre il loro Veneto si allontanava di un altro paio di miglia. Non risulta che qualcuno si sia preso la responsabilità della sconfitta, gesto che sarebbe il primo passo per tentare la risalita; certo è dura rimettere in moto un elettorato stanco e deluso ripetendo come un mantra che «purtroppo Zaia è fortissimo, imbattibile». Ora Lorenzoni dice di voler costruire una nuova leadership in consiglio, ricostruendo pezzo a pezzo il fronte democratico. Non sarà facile, perché al momento è frantumato in mille pezzi. Da Daniela Sbrollini (Italia Viva) a Paolo Benvegnù (Rifondazione) passando per l’ex 5 Stelle Patrizia Bartelle, hanno corso ognun per sé e, alla fine, tutti contro Lorenzoni. Una gara a perdere che, viste le percentuali, è difficile persino definire di testimonianza.